Coperti dal Consiglio di Stato, finanziati dal Ministero dell’Economia, incoraggiati dalla inconsistenza dell’opposizione sindacale, la prepotenza dei Mittal a Taranto non trova limiti
Ci vuole coraggio a essere operai dell’ArcelorMittal di Taranto e dell’immane indotto che ruota intorno allo stabilimento siderurgico. Come ce ne vuole in tutte le fabbriche, ma forse di più. Perché in nessuna fabbrica come all’ex Ilva si rischiano la vita e la salute ogni giorno e ogni momento, tanto che gli operai quando si avvicinano al fetido antro fumoso dicono apertamente: “Sappiamo che entriamo vivi, ma non sappiamo se ne usciremo vivi o morti o a pezzi”: paura avvalorata dalle innumerevoli morti, dalle malattie ordinariamente contratte e dai quotidiani infortuni subiti e dal detto comune, fra i giovani del Tarantino e non solo, “meglio fare qualsiasi altro lavoro piuttosto che andare all’ex Ilva”! Perché, per quanto in ogni fabbrica il tallone del padrone sia sempre attivo a schiacciare i propri operai, in nessuna fabbrica come all’ex Ilva e quindi nell’indotto le sorti degli operai sono brutalmente nelle mani dei padroni. Oggi più che mai. Nemmeno ai tempi dell’Italsider di proprietà statale, neanche ai tempi dell’Ilva dei boss Riva, mai, pur schiacciati, gli operai lo sono stati a un livello pari a quello attuale.
Perché, che cos’altro significa quando i nuovi padroni, i capi della multinazionale franco-indiana ArcelorMittal e i suoi azionisti, mandano uno stuolo di avvocati in tribunale per garantirsi che la fabbrica non chiuda e nello stesso tempo mandano in cassa integrazione circa 8.100 dipendenti, quasi tutti operai? Nella “contesa” in tribunale è andata come previsto. Il Consiglio di stato ha accolto la richiesta di sospensiva presentata da ArcelorMittal Italia e Ilva in amministrazione straordinaria contro la chiusura dell’area a caldo, in attesa dell’udienza di merito del 13 maggio, sostenendo di aver “ritenuto prevalente l’esigenza di evitare il grave e irreparabile danno che sarebbe derivato dalla sospensione dell’attività, cui si sarebbe dovuto procedere entro la scadenza dei termini stabiliti nell’ordinanza stessa”. L’attività dello stabilimento siderurgico potrà quindi proseguire regolarmente. Lo scorso febbraio il Tar di Lecce aveva imposto la fermata degli impianti per ragioni ambientali entro 60 giorni (il 14 aprile), dando seguito a un’ordinanza del sindaco tarantino Rinaldo Melucci. Contro la decisione del Tar la multinazionale aveva presentato ricorso sostenendo di aver adeguato gli impianti alle norme ambientali e dandogli forza con la minaccia di mettere a rischio la trattativa per l’entrata dello Stato nella proprietà dell’ex Ilva.
Poteva mai il Consiglio di Stato, uno dei massimi organi amministrativi e giurisdizionali dello Stato borghese, mettere in discussione uno dei suoi cardini operativi, cioè la tutela degli interessi dei capitalisti privati nei confronti della pubblica amministrazione? Il sindaco Melucci ha blaterato che “il Consiglio di Stato non si sta occupando della salute di mezzo milione di cittadini, assecondando un percorso ormai consolidato. Noi continueremo a lottare comunque a ogni grado di giudizio, andremo fino alla Corte Ue per tutelare la salute dei cittadini”, a lui interessano i cittadini, si è guardato bene dall’andare ad arringare gli operai; ora potrà spendere la sua ordinanza per la prossima campagna elettorale, anche presso gli ambientalisti, e farsene un vanto per la carriera di politico borghese. Il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha sostenuto che “questa pronuncia dà possibilità e tempo alla politica e al Mise di cercare la soluzione per gli operai, l’azienda e la produzione siderurgica italiana, che rappresenta un asset strategico oltre che un’eccellenza e va tutelata”. I sindacati metalmeccanici hanno invocato che “adesso si acceleri per una definitiva soluzione della vicenda ex Ilva, dopo anni di incertezze: dalla definizione del nuovo assetto societario al piano industriale e occupazionale alla manutenzione degli impianti”. Biagio Prisciano della Fim Cisl ha chiesto a Draghi e Giorgetti di “convocare subito un tavolo affinché si riprenda la trattativa per porre soluzione a questa vertenza”. L’Usb parla di “incapacità da parte dei dirigenti di portare avanti la complessa attività nello stabilimento, a partire proprio dalle relazioni personali!”.
Al di là delle chiacchiere di tutti questi nemici più o meno scoperti degli operai, la sentenza del Consiglio di Stato ratifica e certifica la mano libera di ArcelorMittal sugli operai stessi (con effetti che si ripercuotono sugli operai dell’indotto). Oggi i Mittal li mettono quasi tutti in cassa integrazione, domani dicono che faranno andare gli altiforni a pieno regime, dopodomani ne rimettono in cassa alcune migliaia. Si è arrivati addirittura al punto che nei giorni scorsi parecchi operai di ArcelorMittal, mentre si apprestavano a iniziare il proprio turno di lavoro, hanno scoperto che il loro badge era stato disattivato senza aver ricevuto prima alcuna comunicazione ufficiale di avvio della cassa integrazione!
Come si è giunti a tale situazione di un immenso potere espresso in maniera persino strafottente, senza che gli operai quasi fiatino? La risposta sta nella piena sottomissione di politici, amministratori, magistrati e sindacalisti agli interessi e alle volontà dei padroni Mittal, esaltati al loro ingresso nell’ex Ilva, nel 2018, come “salvatori della patria”, e nel loro certosino impegno per far tenere giù la testa agli operai. Oggi l’Arcelor Mittal di Taranto è ciò che era la Fiat di Torino alcuni decenni fa, la fabbrica-laboratorio dove i padroni dettano la linea, l’esempio da seguire. E allora perché meravigliarsi se gli operai, perennemente sotto il ricatto della cassa integrazione e del licenziamento, divisi, disorientati e disorganizzati, con le spalle al muro della fame, si limitano per il momento a mugugnare il malcontento e la rabbia? Ci vuole coraggio anche solo a fare l’operaio di ArcelorMittal e a salvare ogni giorno la pelle!
L. R.
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