Rimozione delle sicurezze, risparmio sui controlli e sulle manutenzioni, per ragioni economiche: guadagno di imprenditore. La strage di operai che si alimenta ogni giorno non ha forse la stessa ragione economica?
Lo sdegno è stato totale, la condanna unanime. Di fronte alla strage della funivia Stresa-Alpino-Mottarone nessuno si è sottratto dall’aspro biasimo verso i suoi responsabili e dalla richiesta di una severa punizione. Nessuno ha potuto girare la faccia dall’altra parte, davanti alla piena ammissione del capo servizio della funivia di aver disattivato i freni di emergenza per consentire il funzionamento della funivia, davanti alla confessione che i gestori della funivia sapevano e tacevano per non perdere i cospicui guadagni derivanti dal trasporto dei turisti sulla montagna. Nessuno ha potuto trovare attenuanti o inventare giustificazioni davanti all’ammissione che i sistemi di sicurezza di emergenza erano stati manomessi per ragioni di “carattere economico”, per evitare di interrompere il servizio in una giornata che lasciava presagire un buon afflusso di turisti. L’evidenza è stata così plateale da costringere anche i più spudorati difensori della legittimità dei padroni di fare soldi senza tanti impedimenti (come – uno per tutti – il neodirettore di Libero, Alessandro Sallusti) a sibilare fra i denti che “così non si fa”, salvo poi aggiungere che “questi sono stati proprio cretini” perché l’hanno fatta troppo sporca e si sono fatti scoprire! Neanche nella strage del ponte Morandi, pur con 47 morti, è stata subito lampante a tutti la responsabilità “economica” dell’accaduto per la mancata manutenzione: nessuno dei gestori di Autostrade Italia ha ammesso colpe, anzi tutti hanno cercato vie di fuga, cosicché Sallusti e altri della sua risma hanno avuto buon gioco nel contribuire a seminare confusione per nascondere le vere responsabilità del crollo del ponte.
Invece nella tragedia della funivia nessuno ha potuto nascondersi. Improvvisamente il “dio denaro” su cui si regge il capitalismo – fare e accumulare senza guardare in faccia a nessuno – è apparso in tutta la sua nudità e si è rivelato per quello che è: forza antiumana, negazione della vita, auspicio e realtà di morte. Sicché la condanna, beninteso, solo morale, è stata corale: perché tutti, anche il direttore di banca o il carabiniere fuori servizio, hanno pensato che in quella cabina potevano esserci anche loro, con famiglia e figli, e che anche loro sarebbero potuti morire sacrificati sull’altare di quel “dio denaro” (da essi normalmente onorato, riprodotto e difeso) da sconosciuti ai quali avrebbero affidato, ugualmente inermi e fiduciosi, le loro vite.
Eppure la stessa indignazione, la stessa volontà di condanna, che oggi accomunano tutti, non le si percepisce così diffuse, totali, unanimi, quando muore un operaio sul lavoro. Neanche quando muoiono più operai insieme, come è accaduto, giusto per fare solo qualche esempio, nella strage della Mecnavi a Ravenna, dove nel 1987 13 operai restarono soffocati all’interno della nave gasiera Elisabetta Montanari mentre erano impegnati in lavori di manutenzione e pulizia, o nella strage della ThyssenKrupp a Torino, dove nel 2007 sette operai morirono bruciati a seguito di una esplosione con incendio, oppure nella strage della TruckCenter di Molfetta (Ba), dove nel 2008 cinque operai morirono per le esalazioni di acido solfidrico sviluppatesi in una cisterna per il trasporto dello zolfo liquido che stavano bonificando o, ancora, nella strage silenziosa delle centinaia di morti per amianto.
In fondo che cosa c’è di diverso? 14 persone sono morte nella caduta della cabina della funivia perché i suoi gestori, per guadagnare, hanno disattivato i sistemi di sicurezza persino contro ogni regola di buonsenso. Gli operai muoiono perché i padroni, spinti dalla ricerca del massimo profitto, impongono orari e ritmi di lavoro che cozzano contro ogni norma di sicurezza, non rispettano le norme antinfortunistiche, non implementano, o disattivano anch’essi, i sistemi di prevenzione. Pur in situazioni molto diverse, la causa delle morti è la stessa.
Ma quando muoiono gli operai quasi nessuno, al di fuori della stretta cerchia di familiari, amici e compagni di lavoro, prova sdegno e chiede punizioni esemplari. La loro morte viene ignorata o, nei casi più gravi, relegata a un comunicato radiotelevisivo di poche parole e/o a un trafiletto sul giornale locale. Viene presentata come “incidente sul lavoro”, fatta percepire come un avvenimento inatteso che interrompe il corso regolare di una buona azione, il lavoro “tranquillo” degli operai, contrabbandata come un incidente di percorso, quasi un contrattempo, una semplice interruzione di un’attività più grande e immanente, la “sacra” produzione che non si può fermare. Tanto è vero che dopo l’incidente, al massimo qualche giorno, il lavoro riprende, il padrone addebita all’operaio la ragione della sua morte, al più cerca un accomodamento economico con le parti coinvolte, e se va sotto processo se la cava sempre con l’assoluzione o condanne ridicole.
Benché producano tutte le merci necessarie per la vita di tutti gli altri, nonostante siano l’ossatura portante della società, gli operai sono considerati gli ultimi degli ultimi: quelli che non sono riusciti a farcela, che non si sono fatti bravi e furbi a trovare un posto comodo e perciò condannati a un lavoro da schiavi, alla frusta quotidiana degli aguzzini del padrone, al rischio costante dell’infortunio e della morte. Sperare in un esame di coscienza e nel ravvedimento dei padroni degli schiavi è impossibile. Per i capitalisti il disprezzo per la vita umana è così forte che nessuna preghiera, nessuna supplica può farli desistere dai loro intenti criminali. Anche perchè sanno bene che la legge è dalla loro parte e pressoché sempre riescono a farla franca. Pure questa volta, dopo appena qualche giorno di prigione, i tre responsabili della strage della funivia sono stati scarcerati. Esattamente come accade ai proprietari, direttori e tecnici delle fabbriche in cui operai perdono la vita.
L.R.
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