Sul quotidiano Domani del 23 maggio è stata pubblicata un’intervista di delegati sindacali e funzionari locali sulla realtà del covid nelle fabbriche. Tutto testimonia la scelta degli industriali di coprire i contagi e aggirare le norme di sicurezza. Ci sono anche dichiarazioni di dirigenti sindacali tese a sminuire il fenomeno.
Con la stessa arrogante forzatura che in questi giorni Confindustria ha fatto saltare la proroga del blocco dei licenziamenti già annunciata dal governo, poco più di un anno fa ha imposto alle autorità della bergamasca di non decretare il lockdown, facendo aumentare in modo esponenziale i contagi, e causando migliaia di morti. «Fabbriche aperte in Lombardia» titolava fieramente “Il sole 24 ore” in prima pagina, alimentando l’ecatombe che avrebbe visto colonne di camion militari trasportare le bare. Quella forzatura di Confindustria è stata d’esempio per tutti i padroni. Da allora fino ad oggi nei posti di lavoro per gli operai è stato come muoversi in un campo minato, con scarse o inesistenti misure per evitare il contagio.
Moltissime fabbriche e attività non hanno chiuso nemmeno nei periodi di lockdwon totale, quando avrebbero dovuto restare aperte, solo le attività essenziali, e gli ospedali con le terapie intensive sature.
«A più di un anno dall’inizio della pandemia, quello che è accaduto nelle fabbriche durante le fasi più acute del contagio rimane un mistero». E’ l’amara testimonianza di alcuni funzionari e delegati sindacali della sicurezza, in una intervista rilasciata al quotidiano Domani del 23 maggio 2021, di cui riprendiamo ampi stralci con pochi commenti.
«Per diverso tempo i lavoratori si sono misurati la temperatura usando tutti lo stesso termometro», racconta Simone Grisa, funzionario della Fiom-Cgil della provincia di Bergamo. «I delegati delle fabbriche venivano da me per chiedermi se anche questo semplice gesto non costituisse un rischio per la salute degli operai».
«Quando è iniziata la pandemia in alcune fabbriche gli operai hanno utilizzato la stessa mascherina per otto ore. Nei casi peggiori anche una o due settimane senza cambiarla mai – dice Grisa – stiamo parlando di operai e non di impiegati».
«A più di un anno dall’adozione del protocollo nazionale sulla sicurezza anticovid nei luoghi di lavoro – sottoscritto dalle associazioni datoriali, dai sindacati e dal governo Conte il 24 aprile 2020 – l’Italia non ha raccolto dati sui contagi né nelle aziende né nelle fabbriche. Non sappiamo quanto i luoghi di lavoro siano sicuri e non sappiamo quante persone si sono ammalate frequentandoli. Il numero di violazioni delle regole di sicurezza commesso è destinato a rimanere un mistero e probabilmente soltanto una piccola parte dei responsabili sarà sanzionata».
CONTAGI IN AZIENDA
«La provincia di Bergamo non è solo l’area più martoriata dal Coronavirus è anche una zona fortemente industrializzata con 80mila imprese attive e centinaia di migliaia di lavoratori impiegati nell’indotto metalmeccanico tra i più importanti d’Italia».
«La distribuzione di mascherine e altri dispositivi di protezione, le regole sul distanziamento e l’areazione degli ambienti di lavoro sono stati ottenuti spesso in seguito a trattative, a volte anche faticose, con le aziende».
«L’acciaieria è un luogo severo», dice Giovanni Bianchini, responsabile lavoro e sicurezza della Cgil che lavora in un’acciaieria di Dalmine, in provincia di Bergamo. «tra fornaci e macchinari è difficile mantenere il distanziamento fisico, fa molto caldo e gli operai devono indossare un tipo di mascherina, la ffp2 senza valvola, che spesso rende il lavoro faticoso». «Nei primi mesi dell’emergenza – continua – abbiamo avuto difficoltà anche nel trovare i dispositivi di protezione più adatti per questo tipo di lavoro. Abbiamo aspettato molto tempo prima che l’azienda sanitaria visitasse la fabbrica, quando abbiamo sollevato la questione del microclima e dell’areazione degli ambienti di lavoro».
Bianchini ricorda anche che è stato grazie agli operai se tra febbraio e marzo 2020 l’azienda ha sospeso la produzione. «Eppure, era chiaro che potevamo contagiarci tutti. Gli ospedali erano al collasso».
Bianchini dice «che le frizioni con l’azienda non si sono mai fermate dallo scoppio della pandemia, e continuano ancora oggi: “Pochi giorni fa abbiamo scioperato 20 ore per chiedere all’azienda i tamponi rapidi molto utili per tracciare il contagio tra gli operai”». Spiega anche che c’è un altro motivo di discussione con l’azienda: riguarda l’uso delle cabine dei carriponte nell’acciaieria. «Nel protocollo aziendale avevamo stabilito che potesse salire un operaio soltanto, perché lo spazio è molto stretto. L’azienda ora ha cambiato idea. Nelle cabine vuole due operai, questo significa però far saltare il distanziamento fisico. Non importa se indossano la mascherina perché sono costretti a stare molto vicino per diverse ore». Gli operai hanno chiesto così l’intervento delle autorità sanitarie. «Due mesi fa ho inviato una mail, stiamo ancora aspettando che i tecnici del dipartimento di salute e prevenzione vengano qui, in fabbrica».
Nell’acciaieria di Dalmine, dopo più di un anno di pandemia, gli operai hanno dovuto scioperare 20 ore per avere i tamponi di tracciamento dei contagi. Solo questo esempio più di tante chiacchiere, chiarisce come sono considerati gli operai rispetto alle misure anticovid. In questa fabbrica poi il padrone ha rotto il protocollo e negli spazi ristretti delle cabine dei carroponti ad alto rischio contagio, ci manda due operai anziché uno.
Mentre Draghi e i suoi ministri assicurano solennemente misure per contrastare infortuni e morti sul lavoro, la demagogia di queste promesse è palpabile nel fatto che, proprio il governo sta preparando il decreto Semplificazioni, per abbattere il costo del lavoro con subappalti senza limiti, e con i controlli alle aziende, non fatti dagli ispettori ma dalle aziende stesse. Misure che insieme ai salari, abbassano il livello di sicurezza sul lavoro.
LA SECONDA ONDATA
«Abbiamo avuto alcune imprese con la quasi totalità dei dipendenti contagiati», dice Angelo Chiari, responsabile Cgil della sicurezza sul lavoro.
Il problema, secondo Chiari, sono le trasferte dei lavoratori. «La maggior parte non durano oltre le 120 ore, cinque giorni in totale». In tutti questi casi i lavoratori non sono obbligati a fare né il tampone né la quarantena. «Ho ricevuto segnalazioni da parte di un delegato per un collega rientrato dal Brasile, quando sul sito del ministero degli Esteri, era vietato lasciare il paese per tornare in Italia».
Trascorrono dieci giorni dalla sua denuncia di Chiari e con un comunicato la Cgil-Fp di Bergamo raccoglie le testimonianze di infermieri e assistenti sanitari del dipartimento di prevenzione dell’Ats: «Il contact-tracing non è più gestibile». A smorzare la denuncia di Chiari ci pensa però il segretario generale della Cgil Lombardia Elena Lattuada che riferisce peraltro di non avere dettagli sui focolai nelle aziende bergamasche. Secondo Lattuada, «26 persone contagiate su 120 dipendenti non è un numero elevato. Non abbiamo bisogno di allarmismi».
E’ vergognoso registrare qui sopra, come Elena Lattuada nella carica che riveste, evidentemente preoccupata di infastidire gli affari del padrone, di fronte ad un comunicato del suo stesso sindacato, arriva all’allucinante affermazione: «26 persone contagiate su 120 dipendenti non è un numero elevato. Non abbiamo bisogno di allarmismi».
Nello stesso sindacato, da una parte il delegato della sicurezza correttamente, vuole andare a fondo sui contagi, muovendosi nell’ambito di un sindacalismo coerente nella resistenza contro il padrone. Dall’altra il segretario generale blocca tutto, perché il numero dei contagi “non è elevato”, dimostrando un sindacalismo compiacente o venduto. Situazioni che andrebbero affrontate smascherando (in questo caso) il seg. generale allo scopo di rimuoverlo. Invece a volte succede che lo scontro su diverse posizioni nel sindacato, porti gli operai a sottovalutare la necessità della lotta e dell’organizzazione per resistere. Taluni lasciano il sindacato bollandolo come “venduto”. In malafede beninteso, perché in questo modo si squalificano anche i delegati che hanno agito correttamente. Poi c’è anche chi cambia sindacato, sperando di trovare quello giusto, irreprensibile.
CONTROLLI ASSENTI
«Dopo le riaperture nel giugno 2020, anche le Ats della provincia di Bergamo hanno dovuto fare i conti con la carenza di personale. Il direttore del dipartimento di prevenzione, la dottoressa Giuseppina Zottola, racconta come sia stato inizialmente costituito un “nucleo Covid” con operatori sanitari, ispettori territoriali, e forze dell’ordine».
Nel pieno dell’emergenza medici e assistenti sanitari dei dipartimenti di prevenzione vengono però impegnati in altre attività. E così i controlli iniziano solo tre mesi dopo l’adozione del protocollo nazionale anticontagio. I dati sono comunque frammentari: su 80mila imprese l’Ats ne ha controllate circa 2mila. Su 4mila controlli, appena il 15 per cento ha riguardato il rispetto del protocollo nazionale anticontagio.
Anche nella provincia di Modena, dove ci sono 60mila imprese attive, i controlli sanitari sono andati avanti a singhiozzo. Secondo un recente studio, tra maggio e novembre 2020 sono state controllate 374 aziende e circa 18mila lavoratori in tutta la provincia. «Quasi sempre i controlli avvengono su segnalazione dei lavoratori e dei rappresentanti sindacali», spiega la dottoressa Silvia Goldoni che ha contribuito allo studio come responsabile scientifico dello Spsal dell’Ausl Area Nord di Modena. «Solo una parte è stata scelta dall’azienda sanitaria. Ci siamo concentrati sui settori della logistica e della lavorazione delle carni a seguito dello sviluppo dei focolai».
NELLE FABBRICHE MEDIO PICCOLE NESSUN CONTROLLO
«Nelle fabbriche più piccole, quelle che hanno tra i 100 e i 200 operai, il protocollo aziendale è un bel ricordo – dice Grisa – Chi riesce a controllare se viene applicato oppure no?». Il motivo è molto semplice: «O hai una rappresentante sindacale all’interno di un’azienda o altrimenti non trapela nulla».
I dubbi del sindacato sulla sicurezza anticovid nelle piccole e medie imprese si scontrano con le parole di Maurizio Casasco, presidente nazionale di Confapi, una delle principali associazioni della piccola e media imprenditoria. «Il virus non si annida nelle fabbriche – sostiene Casasco con convinzione – È la società civile a portare il Covid-19 nelle realtà produttive. Lo ripeto dall’adozione del protocollo nazionale del 24 aprile 2020».
Come se nelle aziende non ci fossero donne, uomini, giovani e meno giovani, comunque esposti al rischio del contagio anche sul luogo di lavoro. Un paradosso.
Mattarella il capo dello Stato, approfitta delle recenti riaperture nei comparti della ristorazione, del turismo, dello spettacolo, per spronare ad una “veloce ripresa”. Dopo la realtà del lavoro in fabbrica passata sotto silenzio e all’oscuro dei riflettori della grande comunicazione, ora Mattarella sprona gli operai dei servizi a lavorare “veloci”, per una retribuzione che a malapena arriva a 10 mila euro lordi annui. Come i loro fratelli di industria e agricoltura, spesso “schiacciati” fra lavoro nero, contratti precari, part time involontario, disoccupazione.
IL MONITORAGGIO INAFFIDABILE DELL’INAIL
Ma al di là dei controlli sanitari, quel che è mancato in tutti questi mesi, è un monitoraggio solido e affidabile che aiutasse a capire cosa stava accadendo nei luoghi di lavoro nelle aziende e nelle fabbriche e quanto il virus stesse realmente colpendo nei luoghi di lavoro.
Ogni mese l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail) pubblica i numeri sulle denunce d’infortunio per Covid-19. Dall’inizio della pandemia ha monitorato oltre 165mila casi di contagio tra i lavoratori. Il 60 per cento delle infezioni è emerso negli ospedali, nelle case di riposo e di cura, nelle cliniche e nei policlinici universitari. In un anno e mezzo di pandemia, nel settore manifatturiero invece sono stati denunciati circa il 3 per cento di tutti gli infortuni per Covid-19. Le realtà imprenditoriali scivolano così dietro alla pubblica amministrazione dove, stando ai dati dell’Inail, sono emersi circa il 10 per cento del totale dei contagi denunciati.
«Per me l’Inail non è in grado di fare una fotografia di quello che succede col Covid-19 né nelle aziende né nelle fabbriche perché non è sul territorio – dice Grisa – Nella bergamasca, per esempio, in tanti non hanno dichiarato l’infortunio». Rispondendo a una richiesta di informazioni di Domani, Inail ha ammesso che «c’è una sproporzione tra il personale disponibile e il numero delle aziende da ispezionare».
Quelli dell’Inail sono numeri parziali «perché non rappresentano l’intera platea di lavoratori», spiega Gianluca De Angelis, ricercatore sociale che collabora anche con la Cgil. I dati sugli infortuni Covid-19 si riferiscono solo ai lavoratori dipendenti tralasciando autonomi, parasubordinati e irregolari che non hanno nessuna tutela e non possono denunciare l’infortunio.
Non sono giorni facili per gli operai delle fabbriche. Quando è stato concluso l’accordo non si sono programmati i controlli nè aumentate le risorse per eseguirne in numero sufficiente. Come hanno denunciato gli stessi sindacati, questo ha consentito, soprattutto alle piccole e medie imprese, che rappresentano però l’80 per cento del tessuto produttivo italiano, di disattendere più facilmente il protocollo.
Sarebbe una gran cosa se operai e delegati mettessero in circolo quello che avviene dove lavorano, se sono presenti reali misure di prevenzione ed antinfortunistica. Come viene svolto il lavoro, i turni, la tempistica, le pause. Scambio di esperienze, consigli, perplessità, sarebbero preziosi contributi per tutti gli operai, nell’affrontare con più determinazione i problemi che ogni giorno ci sono in fabbrica. Come procedere nelle tante realtà produttive dalle quali, sia dentro che fuori, si sente solo la voce del padrone, dei suoi uomini e dei suoi mezzi.
A cura di G.P.
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