I video della mattanza di S. M. Capua Vetere hanno reso impossibile negare l’accaduto. È scattata subito la litania sulle “mele marce” e il “tradimento della Costituzione”. Ma nei pestaggi è coinvolto praticamente tutto il personale penitenziario e la catena di comando. Così come la Costituzione dà ampi margini di manovra agli organi repressivi. Non è un caso che di pestaggi e violenze è piena la storia delle carceri italiane.
Venti anni dal G8 di Genova, dall’omicidio di Carlo Giuliani, dalla mattanza alla scuola Diaz, dalle torture alla caserma Bolzaneto. Venti anni dopo e lo Stato si ripresenta a Santa Maria Capua Vetere con la parte che gli riesce meglio: quella del boia.
Come quelli che a Genova fecero irruzione nella scuola Diaz per massacrare studenti, manifestanti e giornalisti inermi, o che praticarono sevizie e torture agli arrestati nella caserma Bolzaneto, anche i poliziotti e gli agenti responsabili della mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non sono dei «cani sciolti». La premeditazione e l’organizzazione della violenza che si è abbattuta sui detenuti risale tutta la catena di comando, dai più alti funzionari all’ultimo dei secondini. E in queste ore l’ex ministro della giustizia Bonafede minaccia querele contro chi ipotizza che fosse a conoscenza di quanto è avvenuto nel carcere casertano. Salvini è andato a tener comizio davanti al carcere insieme al sindacato degli agenti penitenziari. Si schermisce dietro al “chi sbaglia paga”, ma nostalgico del ruolo che più gli si addice, capo della polizia, porta solidarietà ai poliziotti ritenendo che la “vera mattanza è stata compiuta dai carcerati” che protestarono (per di più pacificamente) per difendersi dal contagio da Covid19.
Il 6 aprile 2020 per dar manforte agli agenti penitenziari del carcere di Santa Maria viene mobilitato un gruppo di supporto alle dipendenze del DAP (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia – e vale la pena ricordare che l’istituzione di questi corpi speciali fu voluta nel ’99 dall’allora ministro Diliberto) che si presenta in tenuta anti-sommossa. Nelle loro chat si erano caricati a molla: «Abbattiamoli come vitelli», «Allora domani chiave e piccone in mano», «spero che pigliano tante di quelle mazzate che domani li devo trovare tutti malati». Le violenze si concentrano soprattutto nel reparto Nilo, dove la gran parte dei detenuti soffre di disturbi psichici e tossicodipendenza, mentre vengono lasciati tranquilli i boss camorristi. Nel reparto arrivano trecento agenti tra interni e esterni e infieriscono su circa duecento detenuti per quattro ore con pugni, calci, ginocchiate, sputi, schiaffi, manganellate. Alcuni sono costretti a camminare in ginocchio, a strisciare, mentre vengono gonfiati di botte. Nei video registrati dalle telecamere di sorveglianza, lasciate accese, c’è un detenuto, costretto su una sedia a rotelle, picchiato alla testa e al petto con il manganello. C’è anche Hakimi Lamine, un giovane di origini algerine, che subisce la frattura del naso. Lasciato in isolamento per un mese, morirà, secondo quanto riporta la magistratura, a seguito dell’assunzione contemporanea di diversi psicofarmaci.
La spedizione punitiva è una rappresaglia per le proteste che nel carcere di Santa Maria scoppiano il 5 aprile. Siamo agli inizi della diffusione dei contagi da Covid. In carcere ci sono oltre mille detenuti (la sua capienza massima è di 800 posti). I detenuti reclamano mascherine e igienizzanti per le mani e contestano la sospensione delle visite. Nel carcere di Santa Maria un addetto alla distribuzione della spesa è già stato contagiato. Si teme che il virus dilaghi. Nelle stesse giornate scoppiano rivolte anche in altre carceri. A Modena dopo l’intervento della polizia si contano 13 morti, ma lì non sono rimaste accese le telecamere di sorveglianza. Sono i giorni in cui la pandemia porta a galla l’insostenibilità delle contraddizioni di un sistema sociale inchiodato tra la sua oggettiva realtà coercitiva e repressiva e i suoi travestimenti solidaristico-umanitari. Come a Genova, non sono mancati tentativi di depistaggio e falsificazione delle prove. Alla Diaz la celere introdusse delle bottiglie molotov e arnesi di ferro prelevati dal cantiere di ristrutturazione della scuola per esibirli sul tavolo della conferenza stampa del giorno dopo come prove della presenza dei pericolosi sovversivi che bisognava sgomberare da quella scuola. Per giustificare la mattanza gli agenti di Santa Maria Capua Vetere hanno prodotto false fotografie che ritraevano spranghe di ferro e pentole con liquami bollenti quali strumenti offensivi che avrebbero voluto addebitare ai rivoltosi. Hanno perfino tentato di alterare la data del video dei pestaggi, retrodatando il file al 5 aprile, per far passare la violenta repressione come risposta immediata e necessaria alle rivolte che si ritenevano incontrollabili. Nessuno ha mai pagato per i pestaggi e le torture alla Diaz e si fa fatica pure ad individuare gli uomini del reparto giunto in «soccorso» del personale penitenziario a Santa Maria Capua Vetere. Il trattamento giudiziario che le istituzioni riservano ai tutori dell’ordine è estremamente garantista, per non dire di totale impunità. Nel 2018 la maestra Flavia Lavinia Cassaro fu immediatamente sospesa dal servizio e dopo quattro mesi licenziata per essersi rivolta ai poliziotti durante un corteo dicendo: “Dovete morire tutti”, al di fuori del suo orario lavorativo e perché le forze dell’ordine stavano difendendo i fascisti. Per i servitori dell’ordine di Santa Maria si sta procedendo invece con molta cautela: abbiamo dovuto attendere la fine del lungo periodo di indagini per la divulgazione dei filmati, oltre un anno, malgrado la notizia dei pestaggi con relativa notifica di avvio delle indagini risalisse al mese di giugno dello scorso anno, e nessuna misura interdittiva, preventiva, disciplinare, è stata comminata in questo lungo arco temporale agli agenti penitenziari che nell’esercizio delle loro funzioni commisero quelle violenze.
Messi di fronte alla crudezza delle immagini del pestaggio, i ministri, i garanti dell’ordine costituito, gli intellettuali di regime, si sbracciano per affermare che quella pattuglia di agenti rientra tra le classiche mele marce, indegne del giuramento prestato ai valori fondanti della Costituzione. Quando non è più possibile camuffare la natura autoritaria degli organismi e delle istituzioni dello Stato borghese, la teoria dei “deviati”, delle mele marce da mettere sul banco degli indegni (e degli imputati), è la via d’uscita, anche quando le “mele marce” coinvolte rappresentano la quasi totalità del corpo di polizia interessato nella vicenda e la stessa dirigenza del carcere. Hanno tradito la Costituzione, grida, sconvolta dalle immagini, la ministra della giustizia Catarbia. Non ha avuto la stessa reazione quando si è saputo che i risultati delle autopsie sui corpi dei 13 detenuti morti a Modena, ufficialmente per aver assunto sostanze stupefacenti, riportavano dati gravissimi, come denti rotti, ferite alla testa, ecchimosi sul corpo, segni evidente dei pestaggi. Un referto medico non fa certo lo stesso clamore di un video messo in rete.
Ma siamo davvero sicuri che gli squadristi di Santa Maria Capua Vetere abbiano tradito lo spirito della Costituzione e non l’abbiano invece applicata nella sua vera essenza? Certo, la Costituzione dice che la dignità della persona va tutelata, ma proclama anche la difesa della proprietà privata e stabilisce anche che chi la viola debba scontare una pena, pena che prevede la possibilità del carcere, cioè di essere privato della libertà personale, separato dal corpo sociale. Il detenuto va rieducato al vivere sociale, cioè a quei comportamenti compatibili con l’ordinato svolgersi della società fondata sulla proprietà privata borghese, ma per essere rieducato deve espiare una pena, subire una coazione esterna. Il carcere è l’istituto con cui la società esercita tale violenza, che può giungere per gli individui particolarmente pericolosi all’isolamento individuale, al carcere cellulare, cioè alla negazione di ogni relazione sociale, non solo verso l’intera società, ma anche con il resto della popolazione carceraria. Al 41-bis, la norma che regola l’isolamento individuale e che vieta anche al detenuto sottoposto a questo regime di detenere libri o giornali, si attaglia benissimo la frase di Marx: “questo isolamento dell’uomo nella propria anima e dal mondo esterno, il collegamento della pena giuridica con la tortura teologica, hanno la loro esecuzione più decisa nel sistema del carcere cellulare […] anche i difensori ufficiali di questo sistema sono stati costretti ad ammettere che esso, prima o dopo, ha come conseguenza la pazzia dei delinquenti”.
La natura classista del sistema giudiziario e carcerario emerge dalle stesse statistiche nazionali. Analizzando i dati delle categorie di reato diffuse nella popolazione carceraria italiana, secondo gli ultimi rilevamenti disponibili, abbiamo un quadro chiaro: i reati contro la normativa sugli stupefacenti sono ascritti al 33% del totale dei detenuti, la rapina al 15%, il furto all’8%, l’estorsione al 7%, l’associazione per delinquere di stampo mafioso è al 3%. Ad eccezione della piccola percentuale di professionisti del capitale criminale, la gran parte, oltre il 60%, della popolazione carceraria, è composto di gente dei ceti subalterni, che vengono puniti per i loro comportamenti devianti verso l’ordine costituito. Costoro vanno neutralizzati e “rieducati”. Ma se lo strumento principale della loro rieducazione è la pena, cioè l’esercizio della violenza statale, che li priva della loro libertà e socialità, perché mai i sorveglianti materiali di questa loro detenzione, i secondini, non dovrebbero esercitare anche la violenza fisica per “rieducarli”? La risposta a questa domanda è talmente ovvia che l’esercizio di tali pratiche è largamente tollerato all’interno del sistema carcerario. Certo quelli di Santa Maria Capua Vetere hanno un po’ esagerato, non tanto per i pestaggi, vedi quello che è successo contemporaneamente nelle altre patrie galere, ma nella noncuranza a mascherarli. E così è capitato che nelle pieghe del sistema che tutela l’anonimato e l’impunità dei violentatori di Stato qualcosa sia andato storto. E il film, come lo chiamano loro, è andato in onda.
In questa storia hanno un ruolo di spicco proprio i responsabili sindacali della polizia penitenziaria. Hanno difeso e continuano a difendere a spada tratta i loro colleghi. La prima lezione dal loro esempio la dovrebbero ricavare i sindacalisti nostrani. Quante volte, invece, operai che non hanno tollerato il regime di fabbrica, violando la sua rigida disciplina, magari offendendo un capo o rifiutandosi di eseguire un comando, sono stati scaricati dal sindacalista di turno, che al massimo, ammettendo lo “sbaglio” compiuto, si è limitato ad implorare clemenza al padrone?
Ma un’altra grande lezione possiamo tutti ricavare dall’atteggiamento di difesa intransigente dei colleghi, malgrado l’evidenza dei fatti, da parte di questi sindacalisti. Il segretario generale del sindacato degli agenti della penitenziaria SPP, Aldo di Giacomo, ha tenuto una conferenza stampa nella quale si è detto “certo” che “il 6 aprile 2020 non vi fu alcun uso sproporzionato della forza, e che il tribunale del riesame ristabilirà la verità”. Il suo ragionamento è di una franchezza illuminante. Ci fu uso della forza ma non fu sproporzionato. Il concetto che sta dietro l’affermazione di questo degno rappresentante della sua categoria è che loro sono lavoratori del manganello e che perciò, bisogna lasciarli “lavorare”! Quanto risulta qui intollerabilmente ipocrita il pianto sulla Costituzione tradita!
Allo scoppio della pandemia furono nette e chiare le distinzioni che si operarono in seno alla società democratica: per alcuni luoghi controllati democraticamente dai poteri democratici non vi furono eccezioni di sorta, nessuna deroga, nessuna astensione. Le fabbriche dovevano restare aperte, il controllo e l’utilizzo della forza-lavoro operaia è questione di vita o morte per la classe dei padroni, le carceri dovevano essere ordinariamente gestite. Ora sappiamo (quasi) tutti come. Vite sacrificabili quelle degli schiavi salariati che producono ricchezza per tutti e dei reietti sociali finiti nelle patrie galere in attesa della loro “rieducazione”.
«C’è stato un giorno di sospensione della democrazia». Lo ripetono politici e opinionisti. Viene detto per Santa Maria Capua Vetere. Fu detto per Genova. Niente di vero. Sono giorni in cui la democrazia dello Stato borghese si palesa per quello che realmente è: il film della violenza democratica va in onda senza mascheramenti, senza censure, senza interruzioni, senza manomissioni.
A. B.
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