Gli operai della fabbrica tarantina sono in presidio permanente da luglio per impedirne la chiusura. Non riuscendo a prenderli per stanchezza, i padroni del Cotonificio Albini minacciano il ricorso alla forza pubblica per riprendere possesso dei macchinari
A Mottola (Ta) gli operai della Tessitura di Mottola srl, diretta dal Cotonificio Albini spa di Albino (Bg), sono in presidio permanente dallo scorso luglio. L’azienda madre bergamasca aveva posto in liquidazione la Tessitura di Mottola e annunciato la chiusura del relativo stabilimento. Gli operai, messi per strada e senza neanche l’aiuto provvisorio della cassa integrazione, non si sono persi d’animo e hanno aperto il presidio permanente per impedire che mercenari del Cotonificio entrino in fabbrica e portino via macchinari e quant’altro sia utilizzabile ai fini produttivi.
Dopo aver atteso tre mesi, sperando nella stanchezza degli operai ma rimanendo delusa, la direzione della Tessitura ha inviato una nota a sindacati e Rsu comunicando che “per indifferibili ed urgenti motivi strettamente connessi al mantenimento degli impianti nonché alla corretta prosecuzione della gestione amministrativa ordinaria si rende necessario che terze parti incaricate dalla scrivente facciano ingresso nelle prossime settimane all’interno dell’unità produttiva”. Aggiunge, chiarendo intenti e rapporti di forza, di “confidare nella vostra massima collaborazione al fine di evitare spiacevoli episodi preavvertendovi sinora che, in caso contrario, verrà chiesto l’impiego della forza pubblica per ottenere il ripristino del libero transito di merci e persone”.
Come si è arrivati al presidio permanente? Il Cotonificio Albini ha inaugurato il polo produttivo tarantino nel 2003 usufruendo dei fondi pubblici della reindustrializzazione per le aree di crisi siderurgica (legge 181/1989) e specializzandolo nella produzione per grandi commesse. In pratica ha delocalizzato parte della produzione nel Mezzogiorno, godendo di parecchi milioni di euro e contando, in un territorio privo di storia industriale, povero di lavoro e ricco solo di tanta emigrazione, su una classe operaia vergine di lotte di fabbrica. Così come ha fatto il Gruppo Miroglio di Alba (Cn) che ha preso un bel pacco di milioni per aprire due stabilimenti a Ginosa e Castellaneta, sempre nel Tarantino, e dopo alcuni anni li ha chiusi licenziando più di 200 operai.
Dopo aver accumulato profitti per quasi 20 anni, adesso per l’azienda bergamasca “il comparto tessile-moda è caratterizzato dal cronico eccesso di offerta, dalla guerra dei prezzi scatenata dalla filiera asiatica, dalla generalizzata riduzione dei consumi e dalla crisi subita da una parte importante degli operatori del settore dell’abbigliamento, in particolare formale. A questi fenomeni strutturali si è aggiunta la crisi causata dalla pandemia. Un trend e un contesto che hanno significato una riduzione dei volumi e un aggravarsi della sovraccapacità produttiva nella tessitura meno specialistica, senza previsioni di un adeguato recupero della domanda di comparto nei prossimi anni”. Per contrastare la crisi di sovrapproduzione il Cotonificio Albini distrugge parte delle sue forze produttive, chiudendo la fabbrica di Mottola. Sicuramente ha già deciso se ridurre l’offerta o delocalizzare ulteriormente all’estero (ha già due fabbriche in Egitto e in Repubblica Ceca) per sfruttare le differenze nazionali dei salari e la differente condizione sociale degli operai da sfruttare. Ma, con il pretesto della “corretta prosecuzione della gestione amministrativa ordinaria”, una sciocca scusa dato che l’azienda è in liquidazione e la produzione è ormai chiusa, vuole indietro i macchinari e per essi non esita a minacciare il ricorso alla forza pubblica. Gli operai, però, stanno in presidio esattamente per evitare che “terze parti incaricate” portino via i macchinari. E fanno bene, perché proprio il mantenimento dei macchinari nello stabilimento è il presupposto per la ripresa dell’attività lavorativa, con i padroni bergamaschi o con altri, agli operai non importa. Così come a essi non importa rimanere impastoiati nelle diatribe sulla cassa integrazione vissute in questi mesi, fra il Cotonificio che non ha voluto usufruire della cassa integrazione per Covid-19 disposta per il tessile sino a fine ottobre e ha fatto ricorso a quella straordinaria, per cessazione di attività, della durata di un anno, e i sindacati Filctem Cgil, Femca Cisl e Uilctus Uil che hanno chiesto la prosecuzione della cassa integrazione Covid-19, da essi inteso e spacciato come “un percorso che traguardi la reindustrializzazione del sito e con esso il recupero professionale di tutti i dipendenti interessati”. Diatribe che rischierebbero, come insegna la storia di tantissime altre fabbriche italiane, di stornare l’attenzione dal vero obiettivo, cioè mantenere aperta e in produzione la fabbrica, e far fallire la lotta condotta in questi tre mesi con forza e fatica. Agli operai di Mottola non interessa vivacchiare nella cassa integrazione, che fa patire la fame e prima o poi termina, ma mantenere il posto di lavoro in fabbrica. Per questo si battono e sono disposti a continuare a battersi.
L.R.
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