Gli operai della Whirlpool sono appesi ad una sentenza, con le lettere di licenziamento alle porte.
Dopo oltre 800 giorni di vertenza stringono un pugno di mosche. La gestione dei dirigenti sindacali è stata fallimentare. Se gli operai avessero gestito a modo loro la lotta non saremmo arrivati a questo punto
C’era attesa per l’incontro al Mise di giovedì scorso con l’azienda e il governo. Era l’ultimo tavolo prima della scadenza dei 75 giorni con cui scattano i licenziamenti definitivi dei 350 operai della Whirlpool di Napoli. Qualche giorno prima in assemblea i sindacati avevano dovuto fronteggiare le contestazioni di chi non accettava di essere giunto al punto in cui l’unica certezza è il licenziamento mentre le alternative restano delle fumose possibilità.
Per oltre due anni i sindacati hanno gestito la vertenza avendo il pieno controllo sugli operai che si sono completamente affidati a loro nella speranza di poter aprire una trattativa con Whirlpool. Se la trattativa non è il punto di arrivo di una lotta che gli operai scatenano per la riapertura della fabbrica, ma l’inizio di un percorso dove la lotta si annacqua, i sindacati restano gli interlocutori privilegiati cui affidarsi e godono di un potere di delega incondizionato. Bisognava battersi per la continuità produttiva, per restare operai Whirlpool, dicevano i sindacati. Eppure in due anni nessun passo in avanti è stato fatto in questa direzione. L’azienda ha sempre confermato in tutte le sedi la propria irrinunciabile volontà a chiudere il sito di Napoli, perché i profitti non crescevano più del dovuto, non prima di aver completato, nei cinque anni precedenti, tutti i passaggi necessari per ridimensionarlo e ridurne i volumi produttivi. Arrivati a un palmo dal giorno dei licenziamenti i sindacati non possono più inventare storie sul destino dello stabilimento e dicono apertamente agli operai che qualcosa si farà, ma non sarà più con Whirlpool.
In verità la battaglia contro Whirlpool non è mai iniziata: da quando l’azienda ha chiuso i cancelli della fabbrica, i sindacati si sono immediatamente rivolti al governo affinché trovasse delle soluzioni, avviando la canonica sequela di incontri, tavoli e manifestazioni sotto le sedi istituzionali.
L’elevata capacità di resistenza dimostrata da questi operai che per più di due anni non si sono mai tirati indietro, con una partecipazione sempre numerosa a blocchi, presidi, cortei, non ha prodotto alcun risultato. Sono stati momenti di una vertenza che non si è mai emancipata da una direzione sindacale che ha assunto il ruolo di portavoce delle scartoffie ministeriali, non quello di cabina di regia della lotta. All’assemblea sembra che gli operai realizzino, in modo colpevolmente tardivo, che il nome Whirlpool aleggia come pura formalità, ma che non sussistano più spiragli per continuare a lavorare con la multinazionale americana. I sindacati provano a serrare le fila per l’ultimo tavolo, annunciano che non sarà una data risolutiva ma fondamentale, chiedono a tutti di partecipare, perché qualcosa bisognerà strappare. Due giorni consecutivi di incontri separati, quasi 30 ore di faccia a faccia con sottosegretari, ministri e funzionari, ma non strappano niente. Giù al presidio gli operai capiscono che è un altro buco nell’acqua, restano in 13, gli altri vanno via.
La discussione al Mise era incentrata sull’obiettivo di convincere Whirlpool a ritirare i licenziamenti ed avviare un percorso che avrebbe portato alla riconversione industriale dopo la cessione del ramo di attività d’azienda. Un consorzio pubblico-privato, con 7 imprenditori e l’innesto di Invitalia, avrebbe rilevato lo stabilimento di Napoli con un accordo-ponte per tutti i lavoratori che sarebbero transitati da Whirlpool alla nuova società. Il governo prospetta questa possibilità già da mesi, con un ipotetico polo della mobilità sostenibile, ma di concreto non c’è nulla, il progetto non esiste ancora. Chiedono a Whirlpool una proroga del termine dei licenziamenti fino al 15 dicembre, garantendo che entro quella data presenteranno un piano industriale. È fuffa anche per Whirlpool che non ne vuole sapere. Il tavolo si chiude con l’azienda che non accetta di ritirare i licenziamenti e non concederà altre proroghe. Si aspetterà solo la sentenza del giudice del lavoro sul ricorso promosso dal sindacato per l’illegittimità della procedura dei licenziamenti, ex art. 28, prevista per venerdì 22. Da notare qui che il ricorso è stato presentato solo dopo due anni di mobilitazione, mentre alla Gkn, sulla spinta degli operai, è stato presentato dopo neanche un mese dall’avvio della procedura di licenziamento. Se il ricorso verrà accolto, si dovrà riavviare l’iter per la chiusura del sito e i licenziamenti collettivi. In caso contrario, e senza alcun accordo tra le parti, i licenziamenti dei 350 operai di Napoli saranno definitivi.
La storia delle riconversioni industriali è sempre finita con una presa in giro per gli operai, con società e cordate imprenditoriali create ad hoc che hanno intascato cataste di finanziamenti statali senza mai far partire alcuna attività. Si potrebbero fare decine di esempi, Termoli Imerese è solo uno dei più eclatanti. Lì gli operai dovevano essere assorbiti da una nuova compagnia con la supervisione di commissari statali, sono ancora alla ricerca del primo giorno di lavoro dopo svariati anni. Nonostante finisca così per gli operai, sono i padroni oggi a ribellarsi alle incognite e alla fumosità di questi tentativi di reindustrializzazione. In una fase in cui la corsa al profitto nell’ambito della concorrenza del mercato internazionale è spietata non ne vogliono sapere di bruciare tempo e soldi, sia pure in funzione del mantenimento di una situazione di pacificazione sociale come vorrebbero governo e sindacati. Con collettività operaie ancora disorganizzate, divise in una miriade di sigle sindacali, che anche sul terreno della sola difesa economica dal punto di vista generale sono in una condizione di sostanziale passività, il rischio che corrono è minimo. I margini di mediazione sono azzerati, i padroni vanno dove vogliono, seguendo solo il calcolo della maggior convenienza.
Senza andare molto lontano, gli operai della Whirlpool dovrebbero ricordare quanto successo a Carinaro, proprio a seguito dell’acquisizione del gruppo Ignis da parte di Whirlpool, e l’immediata beffa che ne seguì con la liquidazione dello stabilimento appena comprato. Anche in quell’occasione il governo si fece garante di accordi e progetti che non sono mai partiti. La metà degli operai ex-Ignis che ha accettato una riconversione solo sulla carta sono ancora in cassa integrazione. Come possono gli operai ancora fidarsi dei proclami sulle nuove occupazioni di cui lo Stato si fa promotore insieme agli stessi padroni che hanno già smantellato intere fabbriche e lasciato il vuoto per andare a fare profitti altrove?
Qualcuno ha deciso di non fidarsi, di provare a cambiare il corso di eventi già scritti, e di organizzarsi diversamente. Sono gli operai della GKN di Campi Bisenzio. La loro lotta che è iniziata con l’immediata occupazione della fabbrica che il fondo inglese Melrose aveva deciso di chiudere, dimostra che laddove gli operai hanno una solida struttura organizzativa di fabbrica, indipendente dai sindacati di appartenenza, e decidono di agire con forza, individuando nel padrone la propria controparte, senza perdersi in inutili processioni per elemosinare tavoli istituzionali, guidano la vertenza, elaborano autonomamente la strategia di lotta, dettano i tempi agli stessi sindacati, costretti a rincorrerli per non perdere la legittimità della rappresentanza, e ottengono risultati importanti. Anche in quel caso l’esito è tutt’altro che scontato, ma dopo cinque mesi l’occupazione di fabbrica resiste, gli operai sono in piedi e i proprietari di GKN già costretti a fare qualche passo indietro di fronte alla dimostrazione di forza di questo collettivo operaio.
Alla Whirlpool di Napoli è successo esattamente il contrario. Questi operai: sono stati persuasi dai sindacati ad accettare che l’azienda sbarrasse con i catenacci gli ingressi della fabbrica durante l’ultimo annunciato giorno di lavoro senza alcuna opposizione; persuasi a mantenere la calma, cioè a ritenere controproducente qualsiasi iniziativa di forza, come l’occupazione della fabbrica, il presidio permanente su prodotti e macchinari, il valore economico dell’azienda ancora tangibile; si sono illusi che sarebbero bastati momenti di visibilità mediatica e le pacche sulla spalla in solidarietà di vecchie volpi politiche addestrate a spargere illusioni per costruire una lotta che mettesse paura al padrone; sono stati confinati in manifestazioni e cortei innocui concordati e cronometrati con le forze dell’ordine senza mai creare un vero problema di ordine pubblico; non hanno mai pensato di bloccare sul serio la produzione negli altri siti italiani super-produttivi del gruppo Whirlpool né hanno imposto ai sindacati di farlo veramente. Nonostante gli sforzi militanti per le continue mobilitazioni, dopo ottocento giorni di vertenza si finisce appesi ad una sentenza del giudice per tirare a campare qualche mese in più e alla promessa di un ministro di finire in cassa integrazione in attesa di nuovi fantomatici piani industriali.
É da monito a tutti gli altri operai che si troveranno a fare i conti con le chiusure delle proprie fabbriche: i padroni sanno quel che vogliono, come imporlo ai loro servi politici e come utilizzare organizzazioni sindacali senza spina dorsale. Se gli operai vogliono almeno difendere il proprio posto di lavoro e il proprio salario dopo anni di sfruttamento, non hanno che da imparare da queste esperienze e organizzarsi di conseguenza per non ripetere gli stessi errori.
A. B.
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