Alla Tessitura di Mottola un film già visto, con la regia di padroni e sindacati: prima le minacce di sgombero armato, dopo l’accordo per incentivare l’autolicenziamento. È così che vengono chiuse tante fabbriche e mandati alla fame migliaia di operai. Ma questa volta gli operai lo hanno respinto
La fortezza si prende dall’interno. È una massima che si attaglia bene tanto a grandi eventi storici, come la presa della città di Troia con il famoso cavallo di legno, quanto a “piccole” vicende come la chiusura di fabbriche, che quasi nessuno conosce ma toccano profondamente gli operai che le vivono in prima persona. È il caso della Tessitura di Mottola srl (120 lavoratori, in gran parte operai), ubicata nell’omonimo paese tarantino e diretta dal Cotonificio Albini spa di Albino (Bg). Ma anche di tante altre fabbriche dove gli operai, di fronte alla chiusura imposta dai padroni, si sono organizzati in presidio .
A Mottola dallo scorso luglio, quando l’azienda madre bergamasca ha messo in liquidazione la fabbrica e ne ha annunciato la chiusura, gli operai sono in presidio permanente per impedire che mercenari del Cotonificio entrino in fabbrica e portino via macchinari e quant’altro sia utilizzabile ai fini produttivi. Un presidio fastidioso per i padroni, proprio perché impedisce loro di spostare i macchinari dove hanno deciso di delocalizzare l’attività produttiva per renderla più proficua per se stessi.
Per smontare il presidio il Cotonificio Albini ha più volte minacciato, tramite la dirigenza locale, lo sgombero armato. Ma i padroni, non sortendo l’effetto sperato, cioè l’impaurimento e l’arretramento degli operai, hanno portato allo scoperto il consolidato strumento di pressione sugli operai con il quale finora avevano manovrato in modo sotterraneo: i sindacati Filctem Cgil, Femca Cisl e Uilctus Uil. Questi avevano già contribuito a diluire e, di fatto, sabotare la lotta degli operai in presidio. Invece di aiutarli a indirizzarla verso l’unico obiettivo perseguibile nell’interesse degli operai, la riapertura della fabbrica e il ritorno di tutti al lavoro, senza alcuna condizione, hanno spostato lo scontro sulla natura della cassa integrazione: battendo la grancassa sulla richiesta di prosecuzione della cassa per Covid-19 disposta per il tessile sino a fine ottobre, mentre il Cotonificio non aveva voluto usufruire di tale cassa e aveva fatto ricorso a quella straordinaria, per cessazione di attività, della durata di un anno.
Insomma, i sindacati hanno lavorato per mesi a un obiettivo al ribasso, buono per abituare gli operai all’idea di poter contare per il futuro solo sugli ammortizzatori sociali e per smontare la loro forza. Poi, quando padroni e sindacati si sono resi conto che le minacce non bastavano per piegare gli operai, hanno collaborato per svuotarne la lotta dall’interno. Queste operazioni, la storia operaia insegna, si fanno dividendo l’unità e la forza degli operai. Infatti i tre sindacati e le Rsu (Cisl e Uil) hanno firmato con Tessitura di Mottola srl un accordo per incentivare l’autolicenziamento di un massimo di 40 operai, in cambio di 14.000 euro ciascuno, in quattro rate mensili. Un accordo del genere era una benedizione per i padroni bergamaschi e i loro referenti locali, un vantaggio per aziende interessate ad acquisire lo stabilimento ma non ad assumere tutti gli operai. Ma era anche un accordo con il quale i sindacati dicevano agli operai che la loro lotta unitaria era inutile, che era ora di smobilitare. E consegnava loro la perdita dell’obiettivo comune di lotta, la divisione su strade diverse ma ugualmente perdenti, la guerra tra poveri per spartirsi alcuni l’incertezza del domani e altri quattro briciole di incentivo.
Accettando quell’accordo, per tutti gli operai si sarebbe aperta, nei fatti, la strada dell’abbandono della lotta e del ritorno a casa per trovarvi la miseria vera, quella che significa fame e lacrime. Perché questo è il vero ultimo risultato di tali accordi sindacali, se gli operai piegano la testa e li accettano. Sono gli stessi accordi che i sindacati hanno firmato, negli anni scorsi, solo per limitarsi a qualche caso in Puglia, alla Nuova Adelchi di Tricase, alla Franzoni Filati di Trani, all’Om Carrelli elevatori e alla Breda Fucine Meridionali di Modugno, all’Ansaldo Caldaie di Gioia del Colle, alla British American Tobacco di Lecce e così via. Sono gli stessi accordi con incentivi all’esodo firmati altrove, ad esempio all’Ast-Acciai Speciali Terni e alla Whirlpool di Napoli (con qualche euro in più, ma gli autolicenziamenti non sono accettabili e barattabili con nessuna cifra). Fabbriche piccole e medie, dai 100 ai 400 e oltre operai. Fabbriche dove i sindacati hanno blandito, deriso, minacciato, lasciato soli e diviso gli operai in presidio firmando accordi con i padroni di turno, dove i sindacati hanno venduto gli operai in nome degli interessi dei padroni e dei propri privilegi, dove i sindacati hanno invitato e costretto gli operai a starsene buoni, a ragionare sul mercato che non tira, a “capire” che si è ottenuto il massimo, ad accettare la cassa integrazione e stare zitti, a pigliarsi l’incentivo all’autolicenziamento e andarsene, a farsene una ragione e poi si vedrà. Fabbriche dove gli operai hanno delegato la rappresentanza della propria lotta ai capi sindacali, dove si sono legati alle loro decisioni, consegnandosi mani e piedi agli accordi firmati alle loro spalle nei tavoli di concertazione.
Ma alla Tessitura di Mottola è andata diversamente. La maggior parte degli operai ha rifiutato l’accordo firmato dai sindacati e ha deciso di continuare il presidio. Rifiutare l’accordo fra padroni e sindacati significa prendere la lotta nelle proprie mani. Se la storia delle sconfitte di tanti presidi operai ha insegnato qualcosa, è proprio questo, che gli operai, a Mottola come altrove, devono imparare a fare in proprio. Per quanto difficile e ardua, è l’unica strada da percorrere.
L. R.
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