IL SALARIO DA FAME LO CHIAMANO LAVORO POVERO

Una delle tante trovate dell’ingegneria linguistica per confondere le cose, povero non è il lavoro ma poveri sono gli operai che lavorano a salari da fame.
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Una delle tante trovate dell’ingegneria linguistica per confondere le cose, povero non è il lavoro ma poveri sono gli operai che lavorano a salari da fame.


 

Caro Operai Contro, il suo vero nome è “salario da fame” ma lo chiamano “lavoro povero”. Una delle tante trovate dell’ingegneria linguistica che mischia volutamente le cose, per sollevare fumo sul fatto che il lavoro salariato arricchisce gli sfruttatori, “povero” non è il lavoro, ma gli operai con i loro salari che sempre più numerosi finiscono in povertà.
Ma dire “salari da fame” suona male ai benpensanti che in tutte le salse, cercano di mistificare la dilagante povertà figlia del sistema dello sfruttamento operaio. Loro preferiscono argomentare e plasmare il problema come si trattasse di una condizione “naturale”: chi è più fortunato, chi lo è di meno e chi è proprio sfigato al massimo.
Oggi i salari in balia dello tsunami del forte e generalizzato rialzo dei prezzi, subiscono ancora di più la svalutazione dovuta ai rincari, perché in Italia sono al terzultimo posto in Europa, sotto la linea dello zero rispetto agli aumenti reali delle buste paga nei paesi europei (tranne Romania e Bulgaria) e negli Stati Uniti.
Il governo Draghi è intervenuto a fine 2021 e per attenuare parzialmente le bollette di gas e luce ha deciso i primi “contributi” alle imprese, nella concezione classica che in questi casi per garantire i profitti industriali e contenere l’aumento dei prezzi lo Stato deve aprire la borsa per sostenere i costi di produzione. Ma era solo la prima ondata di aumenti dei prodotti energetici, che insieme ai rincari delle materie prime, sparano in alto il carovita su tutti i prodotti a partire da quelli di prima necessità.
Mentre ai padroni Draghi ha già assicurato un’altra manciatina di miliardi, sempre per le imprese, il ministro del Lavoro Andrea Orlando, per alzare i salari più miserabili, sta studiando il salario minimo per legge. Ma non si tratta qui del salario minimo si tratta della necessità di un aumento generalizzato dei salari operai cominciando dai più bassi che – proprio per i rincari sopracitati – non è più rinviabile.
Il problema quindi non riguarda solo l’aumento dei salari di quel 22% di lavoratori del settore privato individuati “poveri” dal ministero del Lavoro, bensì riguarda l’adeguamento al carovita della generalità dei salari. Il salario minimo per legge di cui parlano, senza giungere a nessuna vera misura, riguarderebbe i dipendenti irregolari, senza contratti o con i cosiddetti contratti atipici. Il problema del salario povero è invece un problema di tutti gli operai, inquadrati nei contratti nazionali che non vedono aumenti veri da più di venti anni e che oggi devono fare i conti con gli aumenti dei prezzi generalizzati.
E’ chiaro che il livello dei salari non è disgiunto dalle tipologie contrattuali, e la fascia “povera” individuata dal ministero del Lavoro (verosimilmente sottostimata nel numero) è composta essenzialmente (prendiamo il 2019 non condizionato dalla pandemia) da quel 33% di dipendenti fra pubblici e privati, (5 milioni 811 mila) che non hanno una occupazione stabile a tempo pieno, a differenza dell’altro 67% (12 milioni 237 mila).
Sono perciò quasi 6 milioni di operai precari: permanenti a tempo parziale, a termine a tempo pieno e a tempo parziale. Una parte dei salari da fame dipende in buona misura dal fatto che un terzo di tutti i dipendenti (in totale sono 18 milioni 48 mila, sempre nel 2019) è costretto nelle sabbie mobili dei contratti usa e getta. Senza contare gli operai in cassa integrazione che devono vivere con un assegno mensile sotto i mille euro.
Inoltre le aziende utilizzano come se fossero dipendenti anche quei lavoratori autonomi senza obbligo di partita Iva. Assunti con contratti “occasionali” e contratti riservati alle categorie “svantaggiati” e “molto svantaggiati”. La Amazon di Piacenza, ad esempio, seguita poi da altre piattaforme della logistica, per aggirare il limite del 28% degli interinali rispetto i dipendenti a tempo indeterminato, (come da Ccnl del terziario) assunse a piene mani da queste categorie, che non vengono conteggiati nel 28%. Amazon a Piacenza aveva su 3.372 dipendenti, ben 1.702 in somministrazione assunti come “svantaggiati” e “molto svantaggiati” e 1.670 a tempo indeterminato. Il limite del 28% era andato al 50,5%.
Siamo di fronte ad una massa di operai che diventa sempre più povera pur ammazzandosi dalla fatica sul lavoro, e più l’operaio diventa povero e più il suo lavoro è ricco per il padrone che lo impiega.
Sull’impellenza degli adeguamenti salariali, il sindacato finora fa orecchie da mercante, qualcuno anche peggio. Infatti nell’incontro del 19 gennaio al ministero del Lavoro, presenti le “parti sociali”, Giulio Romani della segreteria nazionale della Cisl ha dichiarato che la Cisl è “nettamente contraria” al salario minimo per legge, forse per paura di perdere potere contrattuale. Il problema di tutto il ceto politico e dei capi sindacali è evitare che la pressione salariale si scarichi sugli industriali, sui cosiddetti “datori di lavoro” ma ogni operaio che non nutre illusioni sul governo dei banchieri sa benissimo che la strada maestra per difendere il proprio salario è chiedere collettivamente un adeguamento salariale ai padroni che lo impiegano.
Dai luoghi di lavoro il fermento è molto forte, e non mancano palesi richieste al sindacato stesso perché si faccia carico di rivendicazioni che adeguino i salari all’aumentato costo della vita, considerando anche che parte degli aumenti all’ingrosso, devono ancora arrivare sugli scaffali dei supermercati e nei servizi.
Gli operai creano valore e ricchezza per tutta la società. Se non gli viene pagato neanche un salario sufficiente per sopravvivere, vuol dire che si è passato il limite. Ogni protesta e ribellione è più che lecita.
Saluti Oxervator

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