L’entrata in scena degli operai come forza indipendente è spesso annunciata da rivolte improvvise, con cui vengono spazzate via in un baleno tutti i legami e i ricatti che li hanno tenuti asserviti. Gli operai mostrano così a tutte le forze che difendono la vecchia società quale nemico irriducibile hanno di fronte.
7 luglio 1962. Esattamente 60 anni fa gli operai torinesi della Fiat decisero che abbassare la testa nei confronti del padrone e dei loro lacchè sindacali avrebbe portato solo ad un peggioramento delle condizioni salariali ed ad un aumento della produzione.
Per questi ed altri motivi scesero in piazza per contrastare il padrone in modo deciso, pronti anche a mettere a ferro e fuoco la città.
L’antefatto alla rivolta fu dato da una serie di scioperi programmati a sostegno del rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici.
Dopo alcuni scioperi agli inizi di giugno andati a vuoto, il 19 giugno circa 7.000 operai, per lo più giovani entrati in fabbrica negli ultimi anni, scioperano uscendo dalle officine.
Il 23 giugno in occasione di uno sciopero programmato avviene la svolta. Questa volta, gli operai della Fiat decidono che la misura era colma e fermano gli stabilimenti Fiat. L’adesione nelle fabbriche Fiat allo sciopero è di circa 60.000 operai. La Fiat per screditare lo sciopero cerca di accreditare sui giornali la tesi dello sciopero realizzato attraverso un clima di intimidazioni e violenze; ma questa versione viene smentita, stranamente, dalla stessa Questura di Torino. Evidentemente la polizia non gradisce fare la figura degli inetti.
Per gli scioperi programmati successivamente il 26 e 27 giugno la Fiat, messa in difficoltà dalla massiccia adesione allo sciopero del 23, ed in vista della proclamazione di nuovi scioperi il 26 e 27 giugno, decide di fermare il lavoro in tutti gli stabilimenti torinesi applicando la serrata delle fabbriche.
L’agitazione tra gli operai a questo punto raggiunge il massimo della tensione e, vista l’arroganza padronale agli scioperi decidono di attrezzarsi per incominciare una lotta dura.
Nei primi giorni di luglio Fim Fiom e Uilm daranno vita ad un nuovo sciopero della durata di tre giorni, dal 7 al 9 luglio.
Il giorno 5 luglio la Uilm e il sindacato giallo Sidal, insieme alla direzione Fiat, per tentare di fermare l’ondata di scioperi, firmano un accordo separato che abbassa le richieste della piattaforma nazionale del rinnovo contrattuale. Una tattica utilizzata in tutti gli anni ’50 da Fiat e sindacati compiacenti e che fino a quel momento ha sempre funzionato per spegnere le lotte. Ma il 7 luglio lo sciopero riesce comunque e gli operai, in picchetto davanti ai cancelli di Mirafiori, cominciano una prima serie di scontri, rovesciando le auto dei crumiri e picchiando alcuni dirigenti.
Lo stesso giorno, giunta la notizia della firma dell’accordo da parte di Uilm e Sidal, circa 7.000 operai si riuniscono sotto la sede della UIL in piazza Statuto nel tentativo di assaltare la sede sindacale.
Due giorni ininterrotti di scontri con la polizia, i giovani operai erigono barricate, attaccano i cordoni della celere che picchia gli operai con i calci dei fucili, ma non riuscì a fermare la rivolta.
I giovani operai non danno nemmeno retta a Garavini e Pajetta, giunti in piazza nel tentativo di compiere il solito pompieraggio nei confronti delle lotte operaie.
Sia il segretario della camera del lavoro di Torino; Sergio Garavini che il segretario della Fiom torinese Emilio Pugno, si affrettano a dichiarare la loro completa estraneità ai fatti, dissociandosi dagli scontri di piazza Statuto.
Malgrado il fatto che delegati della Fiom abbiano contribuito ad organizzare le manifestazioni di piazza.
Tutti i partiti di sinistra, i dirigenti sindacali e i giornali della sinistra condannano le violenze e denunciano la presenza in piazza Statuto di “provocatori fascisti” che “avrebbero fatto degenerare una pacifica e spontanea protesta in una guerriglia urbana”, notizia questa completamente falsa.
La determinazione degli operai a non farsi mettere sotto i piedi come al solito finisce nel tritacarne sociale, ad opera di tutta la borghesia, di destra e di sinistra, con in prima fila il PCI, terrorizzato dalla capacità dimostrata dagli operai di poter agire con forza e determinazione in maniera indipendente.
I documenti emersi nelle ricerche storiche recenti danno un quadro chiaro di questo coinvolgimento del PCI nella repressione: “ In un promemoria del 10 novembre, … il prefetto ribadiva e precisava ulteriormente le informazioni: «Fu infatti proprio l’On. Egidio Sulotto (deputato del pci) , nel corso della notte in cui si svolsero gli episodi più gravi di piazza Statuto, [a] telefonare personalmente al Prefetto ed al Questore per protestare perché la polizia a suo avviso trattava con eccessiva dolcezza la teppaglia fascista», chiedendo «più drastici ed energici interventi». Era giunta anche una telefonata di Giancarlo Pajetta – aggiungeva il prefetto, sempre nel corso della notte, nella quale il prestigioso dirigente comunista aveva preso le distanze, a nome del partito, da quanto stava accadendo attorno a piazza Statuto, sollecitando anch’egli «più decisi interventi nei confronti dei manifestanti».
La repressione si abbatte con una durezza eccezionale nei confronti dei manifestanti, con condanne durissime. Ma il “lavoro” di giudici e poliziotti, la campagna denigratoria di politici, sindacalisti e giornalisti non è mai riuscita a sminuire la portata di quello che era successo. Lo squillo di tromba di una nuova possente ondata di lotte operaie.
Gli operai, allora come oggi, hanno molti nemici e la crisi sta lavorando perché esprimano la stessa forza, questa volta con la consapevolezza che devono fare in proprio, costituendo un loro partito.
D.C.
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