Alla FCA-Stellantis di Pomigliano d’Arco esiste un regime giuridico speciale. Si agisce in deroga alle norme previste dallo stesso contratto aziendale (che in FCA-Stellantis si chiama CCSL) e pure contro un sistema normativo fissato dai codici e dalla giurisprudenza. L’azienda comanda e dei sindacati accondiscendenti e servili eseguono, vanno dagli operai e comunicano la decisione aziendale. Poco importa se quella decisione sarebbe da rigettare, non solo per la difesa minima del ruolo di rappresentanza sindacale, se i sindacati tenessero almeno a salvare la faccia davanti agli operai, ma soprattutto perché essa contravviene alle disposizioni del contratto aziendale che gli stessi sindacati hanno firmato. Se questo modo imperiale di agire in barba a contratti e leggi permette all’azienda di manifestare il suo potere, ci consente, una volta di più, anche d’inquadrare i sindacati come bidelli aziendali.
Il caso specifico riguarda le giornate di lavoro sospese dall’azienda per esigenze tecnico-organizzative o per problematiche legate all’approvvigionamento della componentistica e la decisione di recuperarle oltre i limiti temporali imposti dal contratto aziendale. Il 18 e 28 Marzo 2022 l’azienda decide di sospendere i turni A e B di produzione dell’area Panda per le ragioni suddette. Il CCSL prevede (Art. 9, Titolo secondo, Orario di Lavoro) che:
“le perdite della produzione non effettuata per causa di forza maggiore o a seguito di interruzione delle forniture potranno essere recuperate collettivamente, a regime ordinario, previo esame con il Consiglio delle RSA anche al fine di individuare soluzioni alternative di pari efficacia, entro i sei mesi successivi. Il recupero avverrà con le seguenti modalità: nella mezz’ora di intervallo fra i turni, laddove previsto; per un’ora al giorno; nelle giornate di sabato, nei giorni di riposo individuale o in altri turni. In quest’ultimo caso, il recupero produttivo sarà comunicato con preavviso di almeno quattro giorni e sarà riconosciuta ai lavoratori un’indennità onnicomprensiva di € 25,00 lordi rapportata a otto ore di lavoro”.
L’azienda cioè è tenuta a far recuperare la giornata di lavoro non oltre i sei mesi dalla sua sospensione. La Fca-Stellantis di Pomigliano ha invece previsto che le giornate di recupero del 22 e 28 Marzo venissero calendarizzate oltre la soglia temporale prevista dal CCSL, disponendo a proprio piacimento della forza-lavoro operaia, anche rinviando di continuo le decisioni inizialmente assunte. Il 16 settembre infatti comunica il recupero della giornata del 18 marzo per sabato 1 ottobre, quello del 22 marzo per sabato 8 ottobre. Su pressione degli operai i sindacati sono costretti ad intervenire e l’azienda ad annullare la giornata di recupero del primo ottobre, mentre il recupero previsto in data 8 ottobre viene rinviato per “carenza di componenti elettronici”. Da quel momento e fino al 27 ottobre si susseguono dei comunicati sindacali in cui si annunciano le comandate e poi le disdette, con le due giornate di recupero che vengono continuamente calendarizzate e poi immancabilmente rinviate. I sindacati rincorrono l’azienda nelle sue decisioni prese secondo la convenienza del momento e gli operai restano in balìa di padrone e sindacati.
Ma come è stato possibile prevedere il recupero dei turni produttivi sospesi ben oltre il limite imposto dal contratto aziendale? L’azienda ha potuto agire in deroga grazie ad un accordo sottoscritto con i sindacati firmatari del contratto separato (Fim, Uilm, Fismic, Uglm e Aqcf) che le hanno dato facoltà di recuperare, sembra fino a dicembre, le giornate di lavoro sospese nel mese di marzo (con ben tre mesi quindi di proroga!). Alla luce di ciò, sono veramente risibili le loro dichiarazioni di sdegno sulla necessità di un programmazione certa delle giornate di recupero al fine di “non creare disagio alle lavoratrici e ai lavoratori nella gestione della loro vita familiare”. Se non avessero voluto permettere all’azienda di “creare disagio ai lavoratori”, si sarebbero dovuti rifiutare di andare in deroga alle disposizioni contrattuali, facendo valere il diritto degli operai di vedersi retribuite le giornate di lavoro sospese che l’azienda non ha saputo recuperare nei tempi prescritti dal contratto (6 mesi). Non solo hanno permesso che l’azienda agisse come meglio voleva ma hanno cercato di giustificare il loro servilismo sostenendo di aver agito nell’interesse esclusivo degli operai. In poche parole, vista l’impossibilità di recuperare le giornate di lavoro entro i 6 mesi, un loro eventuale rifiuto avrebbe visto compromesso il diritto degli operai alla retribuzione delle ore di lavoro sospese, permettendo all’azienda di recuperare i soldi a suo tempo anticipati.
Ma è davvero così? Se l’azienda ha per contratto l’obbligo di recuperare le giornate sospese entro 6 mesi, gli operai perderebbero il loro salario in caso di mancato recupero?
E’ importante analizzare questo aspetto alla luce degli unici strumenti disponibili che ci permettono di fare chiarezza, ossia gli orientamenti giurisprudenziali. Cercheremo di rendere più comprensibili alcuni passaggi scritti in ‘giuridichese’, poiché riteniamo che la questione del recupero delle giornate di lavoro sia un tema particolarmente attuale per tutti gli operai alle prese con le decisioni unilaterali delle aziende che, prima a causa dell’epidemia da Covid, poi per le presunte contingenze di mercato e difficoltà di approvvigionamento di materiali, stanno continuamente modificando il calendario organizzativo della produzione (il caso FCA-Stellantis con la continua sospensione dei turni comunicata spesso solo poche ore prima dell’inizio del turno è emblematica) lasciando gli operai nella totale incertezza sulla tempistica della loro prestazione e perfino sul diritto alla retribuzione.
Il contratto di lavoro rientra nel regime giuridico delle “obbligazioni corrispettive”. Ciò significa che una prestazione può essere rifiutata solo se il contraente rifiuta a sua volta di eseguire la prestazione dovuta. Esempio: mancata retribuzione per mancata prestazione lavorativa. La deroga a tale principio si determina in presenza di un fatto non imputabile né al datore di lavoro, né al lavoratore, come per eventi straordinari ed imprevedibili, per cui si richiama l’interruzione dei vincoli del rapporto obbligazionario per cause di forza maggiore. Nelle circostanze derivanti da evento naturale, provvedimenti dell’autorità, cosiddetto factum principis, o fatti determinati da terzi, sempreché tali fatti non siano riconducibili a condotte illecite ed omissive del datore di lavoro, sussiste il potere del datore di lavoro di interrompere la prestazione senza che vi sia obbligo di corrispondere la retribuzione. Secondo gli orientamenti della Corte di Cassazione, il mancato pagamento della retribuzione è giustificato solo quando il fatto non è imputabile al datore di lavoro – non è prevedibile ed evitabile – non è riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale e neppure a contingenti difficoltà del mercato.
“Non costituiscono causa di forza maggiore e rientrano, invece, nella sfera del rischio imprenditoriale, tutte quelle situazioni ostative riguardanti la persona del datore di lavoro (come una malattia) o la gestione e l’organizzazione dell’impresa, come il calo delle commesse e le crisi economiche congiunturali e strutturali” (Cass. 15/06/1984, n. 3577); “la parte datoriale può provare l’impossibilità dell’accettazione (della prestazione lavorativa) per motivi sopravvenuti, non allo stesso imputabili, in ragione dei quali la sospensione risulta essere imprevedibile e inevitabile, con esonero dall’obbligazione retributiva. Si precisa che a tale fine non rilevano eventuali carenze di programmazione o di organizzazione aziendale, ovvero contingenti difficoltà di mercato.” (Cass. Sez. Lav. n° 14419 del 27.5.2019).
In sostanza la legge riconosce al datore di lavoro la possibilità di sospendere la produzione e di non corrispondere la retribuzione ai suoi dipendenti quando la sospensione avviene a causa di “eventi naturali, decisione dell’autorità” o altre circostanze a lui non imputabili, non prevedibili e non evitabili, ma non quando queste circostanze afferiscono alla programmazione aziendale, alle crisi di mercato, alla difficoltà di approvvigionamento dei materiali necessari alla produzione. Ed è questo appunto il caso che riguarda l’azienda FCA-Stellantis. Negli ultimi anni si sono reiterati comunicati di sospensione dell’attività produttiva a causa della famigerata carenza di microchip, di generici componenti elettronici, di difficoltà comunque attinenti alla catena di approvvigionamento dei materiali, che ricadono in ogni caso sotto la responsabilità aziendale, come riportato anche dalle sentenze della magistratura (che non è esattamente l’organo di difesa degli interessi operai, tutt’altro). In tutti questi casi il diritto alla retribuzione per gli operai deve essere garantito. I sindacati firmatari del contratto FCA-Stellantis, una volta disattesi i tempi di recupero delle giornate sospese previste per contratto, avrebbero dovuto inchiodare l’azienda alle sue responsabilità. “Comunque paghi gli operai”. Punto. Questo sarebbe stato l’unico comportamento accettabile dopo il 18 e 28 settembre, alla scadenza dei 6 mesi utili per recuperare quelle giornate che l’azienda ha voluto sospendere. Altro che deroghe e piagnistei sulla decisione assunta nell’interesse degli operai. Fino alla fine di dicembre invece agli operai verranno comandate giornate di lavoro oltre tempo massimo e sotto il ricatto implicito di una mancata retribuzione. I bidelli non si smentiscono mai, dovranno essere gli operai a prendersi quel che è giusto, dal padrone e dai suoi servi. Né brilla certamente in questa situazione la Fiom, che pur non avendo sottoscritto il contratto separato, di fronte al balletto di comandate e rinvii, si è limitata, con un comunicato del 20 settembre, a criticare la decisione dei firmatutto di avallare le pretese aziendali di derogare dal CCSL, dicendo che almeno si poteva richiedere che le eventuali giornate di recupero fossero retribuite in regime di straordinario. La Fiom si è guardata bene dal proclamare sciopero in occasione dei giorni di recupero e, ovviamente, di affermare l’assoluta illegittimità della pretesa di non retribuire le giornate lavorative perse decorso il limite dei sei mesi previsto dal contratto.
A. B.
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