La piazza di Milano dello sciopero generale di fiom ed Uilm del 16 dicembre, raccontata senza retorica e con tutti i problemi che solleva.
Dopo questo ultimo sciopero generale organizzato, lasciatemelo dire, con il culo o con l’incapacità cronica che contraddistingue il sindacato, gli operai sono proprio rovinati. Con un volantino confuso in partenza, lasciati a gestire lo sciopero con il passa parola senza neanche fare le assemblee, oramai un lontano ricordo di come ci si confrontava guardandoci negli occhi, gli operai non si sono affatto riversati nelle piazze, molti sono scivolati a fare uno sciopericchio strumentale quello che non attacca un bel nessuno (tantomeno i padroni, anch’essi critici alla manovra, i quali vogliono che l’elemosina per tener buoni gli operai la elargisca lo Stato con il cuneo fiscale), altri hanno intravisto la possibilità di fare un lungo weekend, con una coscienza opportunista si sono autoconvinti che lo sciopero non serve e quelli rimasti hanno raggiunto come individui senza più un identità l’agognato ritrovo organizzato in una piazzetta incolore, Piazza degli Affari. A metà mattinata si contavano circa 200/250 persone per di più generazioni passate di lavoratori, funzionari e delegati, qualche striscione (dei pensionati e le varie sigle della galassia CGIL), un pò di bandiere tra rosso e azzurre e il classico camioncino con la musica posizionato a lato per permettere gli interventi. Anche nella richiesta da parte degli organi d’informazione del significato di tale protesta gli alti dirigenti sindacali nella esposizione in diretta riassumono tutto in poche parole “se siamo qui è perché abbiamo qualcosa da dire”. Tutto politicamente corretto, infatti anche le poche forze dell’ordine all’incirca una cinquantina in divisa e poi i soliti della Digos, quasi neanche se ne accorgono, che c’è in atto una protesta.
L’unico elemento positivo è quando sono arrivati con un corteo chiassoso e variopinto da fumogeni circa una quarantina di operai della Ups, tutti in tuta con il loro striscione e slogan a tutte urla.
Dopo un paio di ore, tutto finito e si scioglie baracca e burattini, con gli individui partecipanti che ritornano da dove son venuti. E noi ci chiedamo: verranno ancora riproposti? Verranno riproposti con queste caratteristiche, scioperi operetta, buoni solo a far sorridere i padroni?
A questo punto ci possiamo anche chiedere perché con una certa tracotanza vengano emarginati gli operai più combattivi decretando così un abbandono sistematico a rappresentare, sotto l’emblema sindacale, una classe sociale fatta di operai. Questo abbandono si è configurato negli ultimi trentanni con una serie di segretari generali del sindacato di cui ci siamo dimenticati in fretta i loro volti e soprattutto delle loro azioni, superficiali e inconcludenti nei contratti e nelle varie situazioni di scontro contro i padroni dovute ai licenziamenti di migliaia e migliaia di operai. Convinti sempre che le crisi finiscano e tutto possa ritornare come prima, pagando ai padroni un prezzo fatto di esuberi e diritti. Con la loro linea di condotta hanno stritolato la convinzione che si può resistere, resistere alle pressioni esterne. Con richieste di tavoli sopra tavoli coinvolgendo il Mise si sono e hanno illuso la base operaia che ci si poteva difendere con le chiacchiere e gli impegni parolai. Non è così, l’abbiamo sperimentato noi alla INNSE, in tutti i tentativi di chiusure negli ultimi venti anni, gli operai hanno fatto un unico fronte contro il padrone di turno e l’unica soluzione è sempre stata quella che la fabbrica non si abbandona, i mezzi di produzione non si toccano, la produzione rimane in ostaggio, a qualunque costo. E su queste posizioni adesso hanno qualche problema i compagni operai della GKN e della Wartsila convinti questi dal sindacato a fare un passo indietro sui motori da finire e consegnare. Intanto negli ultimi tempi una generazione di operai, dopo una vita sulle macchine ha lasciato la fabbrica e quelli rimasti pagano con l’oblio o un esilio i propri principi di difesa dalle prepotenze padronali. Ma questa è un altra storia . Adesso l’obiettivo è riportare nelle fabbriche una coscienza operaia che deve servire a riaprire una discussione sui modi e i mezzi per una difesa collettiva del salario e dei diritti come base di partenza per puntare nel futuro ad una vera e seria emancipazione.
Un operaio della INNSE
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