Fra le mura delle carceri in Italia si assiste ad un fenomeno spaventoso, 82 suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno. Il peso insopportabile di una vita fra sfruttamento, emarginazione e condizioni di carcerazione porta alla decisione di farla finita. Un’altra prova del livello di civiltà di questa società.
Caro Operai Contro, il 21-12-2022 purtroppo l’82esimo suicidio, un numero mai raggiunto nelle carceri italiane in un anno. Arriva pochi giorni dopo gli agghiaccianti racconti di alcuni detenuti del carcere di Ivrea, Città Metropolitana di Torino, (di cui più sotto riportiamo un estratto ) testimonianze di un sistema carcerario che distrugge le persone sotto tutti i punti di vista. Non è certo una novità. Il contrario della pretesa istituzionale che giustifica il carcere come percorso rieducativo per il “reinserimento” nella società. La stessa società fondata sullo sfruttamento operaio, che “produce” precarietà, povertà, emarginazione, indigenza, creando le condizioni di delinquere fra i tanti che sono schiacciati da una condizione sociale insostenibile. Fino al punto che al 31-12-2021 i recidivi nelle carceri italiane erano il 62% del totale, con il 18% recidivi per 5 o più volte. L’infermeria del carcere di Ivrea era stata trasformata in una camera delle torture denominata, “l’acquario”.
Le prigioni nell’epoca del capitalismo, sono cresciute col crescere delle fabbriche, delle forze dell’ordine, dei manicomi, di leggi e istituti per reprimere in varie forme, lotte operaie, proteste e rivolte sociali, le ribellioni degli strati subalterni.
Perciò è in relazione a questo che va considerata la funzione punitiva del carcere. Su un altro livello ma in continuità col metodo del sistema di fabbrica , anche se questo ufficialmente non si presenta come tale, in apparenza non violento, ma che funziona tenendo gli operai assoggettati e subalterni alla gerarchia del comando, che assicura tramite il loro sfruttamento la produttività finché serve, per poi potersi liberare degli operai, in toto o anche solo in parte, quando per il padrone diventano obsoleti e/o in “esubero”.
Nelle carceri in Italia negli ultimi anni rispetto al passato, vengono scontate più pene dalla durata da 5 a 20 anni, rispetto a quelle inferiori ai 5 anni. Una recrudescenza punitiva che lo Stato accompagna all’esterno delle carceri con una serie di misure altrettanto punitive per gli operai: attacco ai salari che solo negli ultimi anni hanno perso il 10%; Jobs act e licenziamenti “economici” che permettono una selezione mirata degli operai da licenziare direttamente, senza più la giusta causa del licenziamento e senza passare attraverso la cassa integrazione; consolidamento di misure legislative (contratti atipici, Voucher ecc.) con aumento e radicalizzazione del lavoro precario; leggi Sicurezza di Salvini con il governo Conte 1; il recentissimo “decreto rave” del governo Meloni; stanziamento eccezionale nella legge di bilancio 2023, per gli straordinari degli agenti delle forze di polizia e per l’assunzione di non meno di mille nuovi agenti.
Ciclicamente vengono spinti con le fasi del mercato, verso l’esercito industriale di riserva una moltitudine di operai. Al centro c’è la figura dell’ “esubero”. Un termine con il quale viene marchiata quella parte di forza lavoro, che non serve più ai padroni per valorizzare ad un determinato saggio di profitto, il capitale investito nel processo produttivo.
Con l’insediarsi del governo Meloni, c’è la “novità’ del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Dalla sua definizione: “Carico residuale” se ne deduce l’impostazione di stampo nazifascista che, riducendo le persone a “cose”, toglie ossigeno, fra l’altro, all’ “esubero” fluttuante. (Si veda qui l’articolo: “Quanto valgono le vite quando si diventa “carico residuale”?)
Nelle carceri italiane sempre in sovraffollamento oltre la normale capienza, al 21-12-2022 si contano ben 82 suicidi, una tragedia record. Si tratta comunque di più di una ottantina di omicidi di Stato, l’atto finale di persone ridotte da questo sistema, insieme ad un gran numero fuori dal carcere, a “esuberi”, non di questa o quell’azienda, non del lavoro irregolare né del precariato a volte sul filo dell’illegalità, ma esuberi sociali, “carichi residuali” per la società del capitale .
Il suicidio è la fine di un percorso iniziato molto prima di andare i prigione. Comincia nella galera quotidiana di quanti sono costretti a delinquere e vivere di espedienti. Arrivati in carcere e constatato l’inconsistenza del “percorso per il reinserimento”, (tranne rarissime eccezioni) tanti decidono di farla finita, e purtroppo quest’anno sono finora 82, molti di più i suicidi mancati. Per ogni suicidio in carcere, lo Stato dei padroni segna un punto a proprio favore, ha vinto sulla disperazione individuale. Ha spinto degli esseri umani a decidere di farla finita con una vita resa insopportabile, ed ancora peggio nello spazio penitenziario che è sotto il suo stretto controllo. Ma la storia carceraria dice che c’è un’altra possibilità la protesta collettiva, la resistenza, la rivolta.
Saluti Oxervator.
Pubblicata dal quotidiano “La Stampa” il 14-12-2022, qui sotto una parte della deposizione del detenuto nelle carceri di Ivrea, Vincenzo Calcagnile, agli atti nell’inchiesta, insieme a deposizioni di altri detenuti.
«Poco dopo essere entrato in carcere avevo tentato il suicidio legando un lenzuolo prima alle sbarre e poi al collo. I primi agenti accorsi mi dissero: “Questo infame non si sa fare la galera”. Mi portarono allora in una stanza tutta a vetri in cui non c’era né un letto né un materasso. Quel giorno entrarono 12 agenti, dieci di loro indossavano i guanti neri, uno per uno. Sono rimasto completamente nudo. Mi colpivano anche con calci e pugni e con un manganello ai testicoli dove ero stato operato in passato. Quando ho chiesto di essere portato in infermeria un assistente con accento romano mi ha detto: “Se parli col comandante o con il medico ti ammazzo”. Poi il trasferimento nella cella licia: “Mi hanno buttato in quello stanzone come un sacco di patate. C’era solo un letto piantato per terra e un materasso di spugna sporco. Mi hanno concesso di mettere le mutande, solo quelle. Non potevo parlare col mio avvocato, non mi era consentito comunicare con gli altri detenuti, mi era negata l’ora d’aria».
45 le persone indagate del personale del carcere nei 2 rami dell’inchiesta della procura di Torino: il direttore del carcere e il suo predecessore, medici, educatori, vertici amministrativi e militari dell’Istituto, agenti di polizia carceraria, perfino carcerati che per paura di ritorsioni non parlano.
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