E’ una consuetudine fare i bilanci di fine anno. L’economia tiene, i profitti pure ma gli operai vivono in un altro mondo. Miseri salari e pensioni da fame.
Alla fine di ogni anno, in questa società è consuetudine tracciare un bilancio-resoconto dell’andamento di qualsiasi situazione, di qualsiasi equilibrio, dunque di qualunque cosa sia intervenuta a modificare degli standard classici o solamente anche per ratificare che tutto procede per il meglio .
Con questa affermazione (che tutto proceda per il meglio) gli operai rischiano di perdere la bussola e di vedere seriamente compromessa la possibilità di una seria emancipazione e di rimanere subalterni a qualsiasi decisione presa da tutti quegli organismi che dovrebbero vigilare difendendo i nostri interessi, ma che invece contribuiscono, con delle posizioni servili e accomodanti, ad una imminente estinzione di una classe operaia rappresentativa di se stessa e capace di decidere sul suo futuro.
La realtà della fabbrica è ben diversa da come viene dipinta da questi soggetti, in questo contesto dove tutti i giorni viene attaccato l’elemento che contraddistingue il rapporto operai – padroni, cioè il salario. Ci rendiamo conto della inutilità di tutti i soggetti, istituzionali, sindacali, impegnati solo nella quotidiana difesa del loro futile e interessato operare, resa indigeribile dalla profonda lontananza da chi tutti i giorni, e lo deve fare una vita intera, per campare, deve piegarsi. E lo deve fare in tutte le situazioni prodotte da rapporti di lavoro sempre più orientati ad un uso e getta con miseri salari e inesistenti diritti; rapporti di lavoro conseguenti ad un progetto di sottomissione avviato oramai da decenni e reso ancora più attuale negli ultimi anni con i nuovi contratti, le leggi sul lavoro e sulla sicurezza.
Dopo le conquiste storiche, ma abbiamo sperimentato essere transitorie, quali le 8 ore giornaliere e le 48 ore settimanali ottenute nel 1919 con scioperi in tutte le grandi fabbriche del Nord, l’introduzione nel 1945 della scala mobile, un sistema che agganciava il salario all’inflazione, il riconoscimento nel 1970 delle responsabilità discriminatorie a cui il padrone doveva rispondere, inserite come legge nello Statuto dei Lavoratori (legge 300), il quale era stato il punto di approdo di un processo iniziato con la firma del contratto dei metalmeccanici del ‘66, proseguito con i successivi tre anni di mobilitazione e scioperi e attuato come unica possibilità di fermare una rivolta operaia crescente, siamo passati, rendendo il rapporto di lavoro non un conflitto tra classi ben distinte ma un rapporto collaborativo basato sulle istanze del padrone, nel 1984 all’abolizione della scala mobile, negli anni ‘90 alla riforma previdenziale, ritornando al sistema contributivo in vigore fino al 1966, poi abolito per passare al retributivo ed ora, un’altra giravolta, alla precarizzazione dei posti di lavoro inserendo una serie di beceri contratti, che hanno demolito negli anni 2000 fino ai decreti attuativi del jobs act, il cosiddetto tempo indeterminato aumentando di fatto in modo esponenziale i licenziamenti senza reintegro.
Sulle giravolte del sistema previdenziale lo sa bene l’ultima generazione di operai uscita dalle fabbriche dopo ben 43 anni di lavoro con quale misera pensione deve sopravvivere e per i decreti attuativi lo sanno benissimo i tre operai licenziati nel 2016 alla INNSE che, pur con una sentenza che decretava i licenziamenti illegittimi ed inefficaci, per loro la porta della fabbrica, rimaneva chiusa. Evidenziando come il padrone, con il pagamento di una specie di multa, possa agire indisturbatamente legittimando le sue azioni.
Con questa storia alle spalle l’ultima generazione sindacale fa spallucce e con qualche sciopericchio storce la bocca per la reintroduzione dei voucher ma ci ha obbligato a digerire tutto il resto mediante sottomissioni nei contratti e nelle varie leggi di bilancio che hanno dato spazio alla completa sudditanza al padrone lasciando al volpone politico di turno l’idea di difendere a parole il salario e le pensioni degli operai garantendosi vita natural durante un consistente vitalizio.
Ma i numeri , sono numeri e i numeri sono importanti.
Dunque perché gli operai che sono una forza di circa 9.500.000, con un reddito medio di 1300 € al mese, non si possono costituire classe sociale che decida del proprio destino, partendo dalle fabbriche e proponendo una linea comune di difesa contro ogni tipo di sfruttamento, creando una componente di rottura con il recente passato di sottomissione assoluta?
Magari non tocca a me stabilirlo, ma una società basata sul profitto garantito dalle merci prodotte da quei nove milioni e cinquecentomila operai, suddiviso fra un numero veramente esiguo di soggetti raggruppati sotto l’egemonia padronale, sta andando in rovina e mi sembra, anzi sono convinto che ci siano gli spazi per riprenderci il maltolto iniziando a occupare nelle fabbriche ruoli di rappresentatività propria ripristinando nei fatti una resistenza attiva prima che una memoria storica fatta di operai combattivi non venga cancellata nel tempo.
Un operaio della INNSE
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