In prossimità dello sciopero e della manifestazione del 19 gennaio a Roma che, senza l’intervento degli operai, si ridurranno ad una farsa e una processione, sono necessarie alcune riflessioni nel merito delle parole d’ordine lanciate dai capi sindacali.
Fiom, Uilm e Usb confondono gli operai con chiacchiere fumose su cambiamento di governance e nazionalizzazione. La migliore risposta a sindacati e padroni privati e pubblici è mettere sul piatto rivendicazioni concrete come l’integrazione salariale per tutti i cassintegrati e il loro rientro in fabbrica, il ritiro della sospensione dal lavoro degli operai delle imprese, misure concrete di sicurezza e tutela della salute.
Il “cambiamento della governance” di Acciaierie d’Italia “finalizzata alla sua nazionalizzazione” e “l’utilizzo dei soldi pubblici per un chiaro e inequivocabile processo di transizione ecologica e sociale”. Sono le parole d’ordine con le quali Fiom, Uilm e Usb hanno chiamato gli operai di Acciaierie d’Italia, Ilva in Amministrazione straordinaria (As) e imprese dell’appalto allo sciopero, con manifestazione a Roma, dichiarato per il 19 gennaio, lo stesso giorno dell’incontro con i sindacati convocato sulla vertenza dell’ex Ilva dal ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso.
Lo sciopero è stato proclamato dai sindacati dopo il varo del decreto del governo Meloni con il quale lo Stato presta ad Acciaierie d’Italia 680 milioni di euro e reintroduce lo scudo penale, che tutela l’azienda garantendole di poter continuare a mandare avanti la produzione anche in caso di problemi penali, come il sequestro disposto da un giudice o un processo ai dirigenti per inquinamento ambientale. Con lo sciopero i tre sindacati chiedono “soluzioni sul futuro ambientale e produttivo dello stabilimento siderurgico di Taranto”. E per dare maggiore forza alle proprie richieste hanno indetto un referendum nelle fabbriche di Taranto, Cornigliano, Novi Ligure, Racconigi e Marghera, dove, a loro dire, il 98% dei votanti (circa 6.300, poiché almeno 4.700 sono in cassa integrazione) si sarebbe espresso a favore della ricapitalizzazione immediata di Acciaierie d’Italia da parte dello Stato attraverso Invitalia (partecipata al 100% dal Ministero dell’economia e delle finanze), che salirebbe così in maggioranza al 60% ponendo fine alla gestione di ArcelorMittal.
È da mesi che questi tre sindacati sventolano la bandiera della nazionalizzazione, nella gestione di Acciaierie d’Italia in generale e della fabbrica di Taranto in particolare, come soluzione vantaggiosa per gli operai e per l’ambiente. Il primo che ha agitato questa parola d’ordine è stato l’Usb: già dallo scorso giugno, in risposta alle manovre di ArcelorMittal, sosteneva che “non si può assolutamente discutere con chi chiede risorse pubbliche per spadroneggiare a Taranto. Noi crediamo che quella fabbrica debba essere gestita direttamente dallo Stato con la nazionalizzazione”. Cgil, Cisl e Uil, con le categorie di metalmeccanici, servizi, marittimi e trasporti, sono venuti dopo, mettendo la parola d’ordine della nazionalizzazione ad arte in bocca agli operai nello sciopero con corteo organizzato il 22 novembre 2022 nello stabilimento di Taranto. L’obiettivo dichiarato di quello sciopero, proclamato dopo la sospensione da parte di ArcelorMittal dei contratti con 145 ditte dell’appalto e dell’indotto, era “mandare via l’attuale governance a favore dell’intervento pubblico”.
La parola d’ordine della nazionalizzazione era già stata ipotizzata nel 2019 da Stefano Patuanelli, ministro 5 stelle dello Sviluppo economico nel governo Conte I, per “garantire la continuità produttiva” dello stabilimento di Taranto allorché ArcelorMittal minacciava di restituirlo se non fosse stato reintrodotto lo scudo penale. Dopo l’ha sventolata anche il sindaco Pd di Taranto, Rinaldo Melucci, che esortava così Meloni: “Cacci questi sciacalli senza regole né onore dall’Italia. Acciaierie d’Italia, purtroppo ancora condotta da Arcelor Mittal, continua a infischiarsene di Taranto e dell’Italia. Ormai la si potrebbe considerare alla stregua di una permanente estorsione di Stato, che manda all’aria qualunque consuetudine o regola delle accettabili relazioni industriali e internazionali».
Ma le diverse “anime” della borghesia sindacale e politica non hanno tutte la stessa posizione. Se per lo schieramento della borghesia di sinistra la nazionalizzazione dello stabilimento siderurgico tarantino e degli impianti a esso legati presenti in varie parti d’Italia è la chiave per risolvere la questione della gestione attuale e futura dell’ex Ilva, quello della borghesia di destra è assolutamente contrario. A dicembre il ministro Urso aveva già puntualizzato che il governo Meloni non aveva alcuna intenzione di procedere alla nazionalizzazione: “Attualmente lo Stato è nel capitale di Acciaierie d’Italia col 38% e dovrebbe salire al 60% nel maggio del 2024. Ma noi non siamo d’accordo con l’obiettivo della statalizzazione delineato dalla maggioranza che ci ha preceduto. Noi prevediamo che la produzione siderurgica, in cui lo Stato può e deve intervenire, soprattutto nei momenti critici, deve comunque essere realizzata da un partner industriale privato. Il nostro obiettivo è confrontarci con le parti, pubbliche e private, per giungere a una soluzione che sia sostanzialmente una ricapitalizzazione dell’impresa, per avere le ulteriori risorse necessarie alla riconversione industriale”. Una posizione confermata dal decreto verso Acciaierie d’Italia. Decreto appoggiato dalla Fim Cisl, che evidenzia, attraverso il segretario generale Roberto Benaglia, come esso “contenga molti aspetti che vanno approfonditi prima di emettere sentenze drastiche e contrarie. Apprezziamo per il momento che il ministro Urso abbia previsto per il 19 gennaio un confronto strutturato con il sindacato e le parti interessate su questo nuovo piano”.
Fra le due “visioni” di gestione dell’ex Ilva si posiziona la Confindustria, che, attraverso il presidente Carlo Bonomi, è possibilista ma bada al sodo: «Spero che non si arrivi a una nazionalizzazione se non già in presenza di un piano per il futuro».
Per gli operai, però, una cosa deve essere chiara. Dallo sciopero e dall’incontro del 19 gennaio non hanno nulla da sperare. Fiom, Uilm e Usb, firmatari con Fim dell’accordo del 6 settembre 2018, voluto dal governo Conte I, che consegnava l’ex Ilva ad ArcelorMittal e le lasciava libertà di manovra nella gestione della forza lavoro operaia (con espulsione dal ciclo produttivo di 6.000 operai su oltre 14.000), adesso che vogliono cacciare l’ArcelorMittal, non hanno neanche il coraggio di dire: “Abbiamo sbagliato!”. Con il loro cretinismo sindacale gettano negli occhi degli operai il fumo del “cambiamento di governance”, ma il loro vero obiettivo, oggi come nel 2018, non è tutelare il salario, la sicurezza e i diritti degli operai, bensì, come fanno in ogni fabbrica, ribadirsi parte integrante della classe dirigente e contribuire alla gestione del ciclo economico e produttivo, orientandolo secondo i propri interessi. Sindacati di tal fatta non possono tollerare che ArcelorMittal faccia di testa propria, ignorandoli completamente. La nazionalizzazione consentirebbe loro, invece, di sedere ai tavoli decisionali, avere voce in capitolo, accumulare potere. Perciò i sindacati, cercando di illudere gli operai che il ritorno alla proprietà statale possa garantire piena occupazione e risanamento ambientale, ne usano il numero per i propri scopi. Per gli operai cambierebbe solo il nome del padrone, è indifferente che la proprietà rimanga privata, nelle mani di ArcelorMittal o di un altro gruppo industriale, o diventi pubblica: saranno comunque sempre usati e spremuti per produrre, con l’acciaio, il profitto che va nelle tasche del funzionario di Stato o del manager privato. Gli operai che si scelgono un padrone piuttosto che un altro, gli consegnano la testa con tutto il collo! Se invece gli operai, piuttosto che fare le comparse di scioperi farsa e cortei-processioni e dare adito a chiacchiere vuote, mettessero sul piatto la forza del numero, esprimessero la loro rabbia contro decenni di prese in giro e ponessero rivendicazioni concrete come l’integrazione salariale per tutti i cassintegrati e il loro rientro in fabbrica, il ritiro della sospensione dal lavoro degli operai delle imprese, misure reali di sicurezza e tutela della salute e affermassero tali richieste con il blocco della produzione e cortei di protesta seria in fabbrica e per le strade, costringerebbero padroni (privati e pubblici), sindacalisti e politici a fare i conti con i loro interessi concreti e a dare risposte immediate. E, nello stesso tempo, acquisterebbero maggiore fiducia nella propria forza.
L.R.
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