Ancora una valutazione su un potere che si regge su una minoranza di elettori, un ragionamento sulle nuove generazioni e sui comportamenti operai.
È proprio vero, politici e maneggioni locali non si scalfiscono, vivono nel loro castello dorato con il 38 % dei votanti espressi da generazioni opulente e vetuste o da generazioni intermedie ed opportuniste figlie della concertazione degli anni ‘90.
E con tutto questo squallore si presentano sventolando vittorie immaginarie. Infatti i dati in Lombardia sono impietosi nel rendere imbarazzante la situazione, evidenziamo qui il rapporto fra i lavoratori dipendenti e quelli che non sono andati a votare: gli occupati sono 4.400.000 e gli astenuti 4.500.000. Lo sappiamo bene che il non voto è trasversale ma dati così se a loro devono far riflettere a noi fanno solo sorridere.
Perché non si chiedono dove sono i ragazzi, dove sono le nuove generazioni?
Lasciati nel dimenticatoio, usati come vetrina dei loro sporchi affari, soffocati dalle gerarchie, costruiscono la giusta direzione da seguire in strada, manifestando, per esempio come nei giorni scorsi a Firenze, creandosi in modo naturale un proprio DNA fuori da tutti gli schemi prestabiliti. Nelle proteste per ribadire la propria identità cercano di non farsi inglobare dalle classi padronali nel circolo vizioso dello sfruttamento, dove un insieme di beceri contratti messi in campo per ridurre la disoccupazione ha creato un nuovo modello di schiavo con in aggiunta le catene in regalo!
Ma in tutto questo dove sono gli operai?
Incapaci di reagire navigano a vista, una piccola parte si illude saltando da una parte all’altra degli schieramenti di raccogliere le briciole, i componenti di un’altra piccola parte, come un vestito calzato su misura, si definiscono alternativi dunque votano più o meno a sinistra, qualsiasi cosa succeda, una parte poco numerosa si riconosce nella meritocrazia padronale stil borghese e la parte più rilevante invece ha letteralmente cancellato l’assioma classico borghese: il dover andare a votare, scegliere qualcuno per forza, che in nome delle libertà generiche si faccia carico di tutti i problemi economici, strutturali, culturali e pure esistenziali.
Ho scritto dovere, ma siccome gli operai ne hanno già fin troppi, l’unica strada è lottare nelle fabbriche per ripristinare i diritti, salariali e normativi abbandonati dal sindacato perché fonti di conflittualità.
Una conflittualità rinnegata dai molti perché danneggia la moderazione con cui hanno imbevuto le presunte lotte negli ultimi trent’anni, che sono state solo il frutto della concertazione, fiore all’occhiello di un sindacato ormai alla frutta. L’abbiamo visto nella rielezione dei segretari, dirigenti sindacali. All’ultimo congresso, quello regionale lombardo di FIOM-CGIL, il candidato appoggiando il documento congressuale della segreteria nazionale, veniva rieletto con il 95% dei delegati presenti. Una conferma all’unanimità che la dice lunga del dibattito sulle scelte sindacali preconfezionato dall’alto.
E le fabbriche? Le fabbriche chiudono o vengono normalizzate nell’azione sindacale, razionalizzate nei numeri degli occupati, rimodulate su qualsiasi richiesta del padrone.
A mio parere, lasciare spazio a queste dinamiche, continuare a credere alla dignità del lavoro, continuare a produrre in nome del profitto venendo calpestati o addirittura estromessi, quando non si serve più, abbia fatto il suo tempo. Bisogna trovare in tutte le fabbriche forme di autodeterminazione per tracciare una linea comune arrivando senza remore ad un obiettivo finale. Liberarci da questo sistema.
Un operaio della INNSE
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