Paola Clemente è solo una delle tante braccianti morte per troppo lavoro nelle campagne. Oggi è il tribunale di Trani ad assolvere il padrone, “il fatto non sussiste”, ma sono in tanti che fanno finta di non vedere e giustificare le bestiali condizioni di lavoro nell’agricoltura.
Il 13 luglio 2015 Paola Clemente, bracciante di 49 anni di San Giorgio Jonico (Ta), morì in un tendone di uva da tavola ad Andria, dove era addetta all’acinellatura per un salario di 27 euro al giorno. Uscita di casa alle due di notte e partita alle tre per iniziare a lavorare alle cinque e mezza di mattina, si era già sentita male in pullman e aveva chiesto di essere portata in ospedale, ma l’autista-caporale aveva proseguito perché bisognava arrivare ad Andria! Giunta al tendone, in una giornata straordinariamente calda sin dal primo mattino (alle sette c’erano già 31 °C), si era seduta sotto un albero, in attesa che il malore passasse. Ma si era sentita peggio, era rimasta sotto l’albero e là era morta, senza alcuna assistenza medica. A distanza di quasi otto anni il Tribunale di Trani ha assolto il padrone del tendone, che era stato accusato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa a tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro e per il quale la Procura aveva chiesto quattro anni di reclusione, “perché il fatto non sussiste”, disponendo la restituzione dei beni sequestrati.
Quella di Paola Clemente non è stata l’unica morte di braccianti costretti a faticare nei campi sotto il doppio tallone del caporale e del capitalista agrario e in condizioni climatiche e logistiche particolarmente dure. Prima e dopo di lei molti altri braccianti sono morti sul lavoro oppure andando o tornando dai campi. Solo alcuni casi, fra i più eclatanti e limitati alla Puglia, che hanno coinvolto in particolare donne, spesso molto giovani, e migranti africani, danno comunque pienamente idea della mattanza consumata sulla loro pelle.
Il 7 luglio 1974 tre ragazze braccianti di Monopoli (Ba) morirono in un incidente stradale mentre venivano portate da un caporale in furgone in campagna. Il 19 maggio 1980 sulla superstrada Taranto-Brindisi tre ragazze braccianti di Ceglie Messapica (Br) morirono in un incidente stradale che coinvolse un furgoncino, guidato dal caporale, omologato per nove posti, ma in cui erano stipate una ventina di donne che andavano a raccogliere fragole nel Metapontino per 14-15 ore fuori casa e per 6-8mila lire a fronte di una paga sindacale di 27mila lire al giorno. Una settimana dopo la morte di Paola Clemente, il 20 luglio 2015, Mohammed Abdullah, bracciante sudanese di 47 anni, morì in seguito a un malore mentre raccoglieva pomodori in un pomeriggio di caldo torrido a Nardò (Le). Il 5 agosto 2015 un bracciante tunisino di 52 anni morì a Polignano a Mare (Ba) dopo otto ore di lavoro a tagliare uva da tavola e caricarla sui camion sotto il sole bollente. Il 4 agosto 2018 quattro braccianti nordafricani morirono e altri quattro rimasero feriti in un incidente stradale del pullmino strapieno guidato dal caporale nel Foggiano, sulla strada fra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri. Due giorni dopo, il 6 agosto, persero la vita 11 braccianti africani e il caporale alla guida di un furgoncino in un altro incidente sulla statale 16, in località Ripalta di Lesina (Fg), di ritorno da una giornata a raccogliere pomodori. Il 25 giugno 2021 un bracciante di 27 anni originario del Mali, Camara Fantamadi, si accasciò e morì mentre percorreva in bicicletta la strada provinciale fra Tuturano e Brindisi, dopo aver lavorato nei campi per tutta la giornata sotto 40 °C. Il 19 maggio 2022 una bracciante di 65 anni morì in un incidente stradale dell’auto guidata da un caporale e altre quattro rimasero ferite, una delle quali decedette un mese dopo.
Ma fra tutte queste e altre morti di braccianti quella di Paola Clemente suscitò particolare clamore a livello nazionale per precise ragioni: da un lato era una donna italiana, dall’altro era morta abbandonata, di fatto, sotto un albero, in una giornata torrida e afosa. Troppo per i braccianti costretti nei campi al giogo di caporali e padroni. Troppo, in maniera diversa, per i perbenisti piccolo borghesi che si sono indignati perché non vogliono vedere l’indecenza dello sfruttamento superare certi limiti molto appariscenti. Troppo anche per sindacalisti e politici che chiudono gli occhi sullo sfruttamento bestiale nelle campagne, perché, a quel punto, era diventato troppo difficile mantenere, senza danno per loro stessi, l’ipocrisia di sempre. Sicché, almeno per smuovere le acque torbide del malaffare caporalesco nelle campagne e calmare l’opinione pubblica “critica”, il caporalato balzò ai primi posti nell’agenda del governo Renzi, il ministero del Lavoro, la Regione Puglia e le forze dell’ordine costituirono una task force per contrastare la “nuova schiavitù” dei campi, si susseguirono denunce e arresti e il parlamento approvò, più di un anno dopo, a ottobre 2016, fra mille polemiche, la legge 199, la cosiddetta legge contro il caporalato o “legge Paola Clemente”, come molti l’hanno chiamata. Una legge che, con tutte le sue ambiguità e i suoi limiti, per la prima volta in Italia dettava “disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”. Una legge tanto a maglie larghe che non ha intaccato nella sostanza il sistema dei caporali e migliorato le condizioni dei braccianti, ma che è stata comunque osteggiata in parlamento, soprattutto dai politici che trovano nelle classi dei padroni agricoli la propria base elettorale, e fuori da esso, allora e oggi, da vecchie e nuove organizzazioni di agricoltori: quelle storiche, come Confagricoltura, Coldiretti, Cia-Agricoltori italiani e Copagri, l’hanno definita vessatoria, perché prevede l’arresto in flagranza di reato, sanzioni penali e misure patrimoniali; invece le nuove, come il Comitato Agricoltori di Capitanata e il Movimento Nazionale per l’Agricoltura, sono nate negli ultimi anni avendo tra le parole d’ordine proprio la lotta contro quella legge. Benché la legge 199 sia spesso e in gran parte non applicata, solo il fatto che esista, e che quindi, come essa prevede, ogni tanto carabinieri e finanzieri eseguano controlli nei campi, fa tremare i capitalisti agrari e i loro sodali caporali.
Per aggirare i controlli molti caporali che manovrano forza-lavoro italiana hanno cambiato pelle. Il moderno caporalato spesso si camuffa attraverso agenzie interinali e agenzie di viaggio, opera con pullman e furgoni meno antiquati, a volte con i vetri oscurati. Ma la sostanza dello sfruttamento, operato di concerto da padroni e caporali con la doppia rapina sul salario, non è cambiato. Invece con i braccianti migranti i caporali, spesso essi stessi africani, tendono a mantenere più facilmente le tradizionali sembianze di autentici negrieri.
Proprio alla luce del “cambiamento” di pelle del caporalato, per rimanere in fondo sempre se stesso, l’assoluzione del padrone agrario da parte del Tribunale di Trani assume un significato particolare. Nei processi a carico di agricoltori e intermediari accusati di caporalato e sfruttamento della manodopera (sfruttamento inteso esclusivamente come non rispetto delle norme legali sull’assunzione e sul pagamento di un salario sulla base della contrattazione nazionale e provinciale), in genere il primo grado di giudizio distribuisce pene severe (per contentare i ricorrenti e le parti civili), poi ci pensano i gradi successivi ad ammorbidirle, attenuarle e persino farle scomparire, trasformandole in sanzioni amministrative, cioè semplici multe.
Nel processo invece a carico del proprietario del tendone in cui è morta Paola Clemente il giudizio di innocenza a suo favore “perché il fatto non sussiste” lo scagiona da ogni responsabilità riguardo agli obblighi di prevenzione e protezione di chi lavorava per lui. E su un secondo processo a carico di sei persone accusate di intermediazione illecita, truffa e sfruttamento del lavoro, sempre nell’ambito del procedimento legato alla morte di Paola Clemente, pende la beffa della prescrizione. Certo, la giudice che ha assolto il padrone agrario non ha bisogno di alzarsi alle due e partire anche se sta male per portare a casa un misero salario dopo sette ore di fatica nel tendone e cinque ore di viaggio fra andata e ritorno. Anche i segretari generali di Cgil Puglia, Pino Gesmundo, e di Flai Cgil regionale, Antonio Gagliardi, non hanno la stessa necessità, visto che si sono limitati a dire: “Non possiamo far altro che attendere il deposito delle motivazioni della sentenza per analizzare il percorso logico-giuridico seguito dal giudicante”. Padroni e caporali sono ben serviti da magistrati e sindacalisti, i braccianti invece sono soli. Ma solo partendo da questa consapevolezza può essere possibile, per i braccianti di ogni colore, unirsi e organizzarsi per difendere salario e salute.
L. R.
Comments Closed