Il capitalismo agrario e agroalimentare ha da tempo le sue responsabilità nel dissesto idrogeologico, assieme alla corresponsabilità del ceto politico che ha coperto ogni speculazione dei costruttori edili sul territorio.
Il 2 maggio il presidente Mattarella ha incontrato a Cesena una folta rappresentanza di imprese capitalistiche della filiera ortofrutticola italiana e ha magnificato la loro importanza e la capacità di conquistare mercati nel mondo. Lo ha fatto all’anteprima della 40ª Fiera internazionale dell’ortofrutta (Macfrut 2023) organizzata da Fiera Cesena dal 3 al 5 maggio presso il Rimini Expo Center. Per il presidente di Macfrut, Piraccini, “con la sua presenza il presidente Mattarella ha evidenziato la centralità di un comparto di eccellenza del made in Italy che coinvolge 300mila aziende per un valore di 15 miliardi di euro, una cifra che si triplica se si considera l’intera filiera”. Il giorno dopo, 3 maggio, il ministro Lollobrigida ha inaugurato Macfrut alla presenza di gran parte dell’imprenditoria e della dirigenza politica e amministrativa del capitalismo agrario e agroalimentare italiano e di numerosi ministri esteri.
Mentre il capitalismo agrario e agroalimentare italiano celebrava se stesso nel cuore della produzione ortofrutticola e zootecnica nazionale (da Parma a Reggio Emilia, da Modena a Bologna, da Ferrara a Forlì, da Cesena a Ravenna è una distesa continua di frutteti intensivi e vigneti, serre per la coltivazione di fragole e ortaggi, magazzini per la lavorazione dell’ortofrutta, stalle, porcilaie e aziende per la trasformazione del latte e della carne, dove lavorano centinaia di operai salariati italiani e stranieri, spesso reclutati dai capitalisti agrari e agroalimentari attraverso l’intermediazione di “caporali”), una prima forte alluvione ha colpito dal 2 al 4 maggio questo centro nevralgico del capitalismo italiano, causando due morti e ingenti danni. Ma è stata solo l’anteprima della seconda e più pesante alluvione che dal 16 al 19 maggio ha devastato la parte orientale dell’Emilia e gran parte della Romagna con decine di fiumi e torrenti esondati e centinaia di frane in movimento: 7.000 chilometri quadrati alluvionati, 15 morti, un numero imprecisato di dispersi, oltre 36mila sfollati, danni complessivi per miliardi di euro.
Che sia stato colpito il cuore dell’agricoltura capitalistica italiana, con produzione agraria e zootecnica ad alta e crescente intensità di capitale per addetto e con elevato impiego di forza-lavoro salariata, non è casuale. Mentre nella Bassa Padana, cioè nella pianura, il capitalismo agrario ha trovato l’espressione geografica più adatta per insediarsi e accumulare profitto, le prospicienti colline e montagne dell’Appennino emiliano-romagnolo sono state letteralmente abbandonate, così come altrove in Italia. Il capitalismo non è interessato a uno sviluppo omogeneo del territorio, cerca e sceglie le aree dove più facilmente trova le condizioni per riprodursi e si concentra in esse. L’abbandono delle colline e delle montagne significa però spopolamento, assenza di coltivazioni, incuria del territorio, desertificazione. In un territorio collinare o montuoso trascurato nessuno più manutiene gli argini e pulisce i letti di fiumi e torrenti, nessuno cura il rimboschimento, nessuno costruisce sbarramenti per contenere il terreno e quindi prevenire la formazione di smottamenti e frane. Un territorio sempre più dimenticato diventa facilmente preda di incendi dolosi e premessa di frane e alluvioni. Un territorio abbandonato subisce più rapidamente i colpi di eventi meteorologici estremi causati dalla crisi climatica derivante dal riscaldamento globale della Terra, prezzo che il capitalismo mondiale fa pagare all’intera umanità in nome della ricerca del massimo profitto a tutti i costi e, quindi, della sua indifferenza verso tutte le forme di danneggiamento del territorio e dell’ambiente e del suo disprezzo verso la distruzione climatica del pianeta.
I capitalisti agrari non sono interessati alla cura diretta del territorio perché non produce merci scambiabili con denaro. Semmai la demandano alle amministrazioni locali, ma queste non si impicciano ad affrontare realmente la sua protezione e tutela in montagna, in collina e in pianura. Anzi queste contribuiscono ad alimentarne il depredamento preferendo chiudere gli occhi in caso di abusi ambientali ed edilizi (fiumi e torrenti tombati, costruzioni appena sotto o addirittura nel letto di corsi d’acqua asciutti), di depredamento di sabbia e altri materiali da costruzione dai loro letti, di coltivazioni illecite negli alvei di fiumi e torrenti, perché illegalità simili diventano ottime monete di scambio elettorale. Non a caso negli ultimi decenni diversi governi hanno varato tre condoni con 15 milioni di domande di sanatoria e numerose altre misure simili pur senza chiamarli condoni.
In Italia la necessità della tutela del territorio era già chiara all’indomani della liberazione dal nazifascismo, perché l’Italia collinare e montuosa scontava grossi problemi di dissesto idrogeologico ereditati dal regime monarchico-fascista che, insieme con il blocco industriali del Nord-agrari del Sud che lo sosteneva, se ne era completamente disinteressato. Tanto è vero che la riduzione del dissesto fu uno dei perni della riforma agraria avviata nel 1950, ma solo a parole e quindi completamente disattesa. Tale necessità divenne ancora più drammaticamente evidente con la grave inondazione del Polesine nel 1951, con più di 100 morti e 180.000 senzatetto: infatti fu messo a punto un “Piano orientativo per la sistematica regolazione dei corsi d’acqua naturali” richiedente l’impiego di 1.500 miliardi di vecchie lire in un trentennio, che però rimase completamente inosservato. Diventò ancora più matura all’indomani dell’alluvione di Firenze nel 1966 (35 morti, gravissimi danni anche al patrimonio artistico), difatti la Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo, costituita dopo l’alluvione e presieduta dal professor Giulio De Marchi, nel 1970 ribadì l’urgenza di eseguire i lavori previsti e aggiunse la necessità di realizzare un sistema di serbatoi di piena, ma tale urgenza si tradusse solo in un mucchio di carte e tante buone intenzioni. Con gli anni i problemi si sono aggravati e nessuna reale azione preventiva è stata decisa e finanziata da tutti i governi borghesi, di ogni colore e composizione, che si sono succeduti. Da allora non si contano le decine di alluvioni registrate in Italia, con centinaia di morti e immani distruzioni. Più di 30 alluvioni con oltre dieci morti per ogni evento, a Sarno, Messina e altrove. Solo negli ultimi mesi quelle nelle Marche, a Ischia e in Emilia-Romagna, con il loro tragico corollario di morti e devastazioni. Eppure da tempo autorevoli scienziati, come il geologo francese Marcel Roubault, hanno scientificamente dimostrato che le catastrofi naturali, come le alluvioni e le frane, sono prevedibili ed evitabili, ma il capitalismo ha altri interessi. D’altra parte non era noto da decenni che l’amianto era pericoloso per la salute umana, ma i capitalisti che lo facevano utilizzare agli operai nelle loro fabbriche hanno tirato tanto per le lunghe che è stato messo fuori legge solo nel 1992?
Questa è la sostanza, tutto il resto è un cumulo di chiacchiere per distogliere l’attenzione dalle vere responsabilità economiche, sociali e politiche, storiche e attuali. Perché non solo gli operai e gli altri proletari sfollati e senza casa, ma anche qualche agricoltore o allevatore o industrialotto fino a ieri ben inserito nel sistema, oggi, con l’azienda distrutta e il portafogli bagnato, alla fine potrebbe prendersela con i governanti di turno, locali e nazionali, e nessuno di questi vuole correre tale rischio. Ecco allora il solito ritornello che non è il momento di fare polemiche, per zittire il malcontento e la protesta. Ecco allora da un lato deviare l’attenzione sugli eroi salvatori (ma nelle persone semplici e comuni lo spirito di solidarietà umana è sempre vivo!) e sulla forza d’animo dei romagnoli (che altro devono fare se non rimboccarsi le maniche?). Ecco allora discettare di cambiamento climatico e dissesto idrogeologico come accadimenti oggettivi al di fuori delle condizioni economiche e sociali materiali in cui viene realizzata la produzione capitalistica e la conseguente gestione dell’ambiente. Ecco allora trovare la scusa degli eventi estremi e imprevedibili. Ecco allora i fuorvianti e inconcludenti vaniloqui di chi accusa, coscientemente o per ignoranza, l’“uomo” di distruggere il pianeta, come gli stucchevoli inviti del papa “a prendersi tutti cura della casa comune”! I governi borghesi, che sono sempre stati ossequienti agli interessi dei capitalisti, che fanno? Come ha fatto Meloni: una passerella di cortesia, la solita litania di vuote parole d’occasione, tanto ipocrita dispiacere, qualche lacrimuccia, la sospensione del pagamento delle bollette e la promessa di finanziamenti per ricostruire tutto e bene, e in fretta. Intanto i capitalisti rovinati chiedono e avranno i rimborsi dei danni. Altri capitalisti plaudono di fronte al denaro che arriverà per riparare e ricostruire. Per gli operai, per i proletari, per gli ultimi nella scala sociale, la consapevolezza che fin quando esisterà il capitalismo occorre sempre prepararsi per le prossime alluvioni, per le prossime frane, per i prossimi morti.
L.R.
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