Qualche sfilata e tante preghiere in silenzio non fermeranno la violenza razzista. Questi giovani balordi sono gli esecutori vigliacchi di un messaggio sociale contro neri e stranieri che nasce e si sviluppa nei piani alti del potere, del governo. Con questi bisogna fare i conti.
Frederick Akwasi Adofo, 43 anni, ucciso di botte a Pomigliano d’Arco la notte del 19 giugno. Era arrivato in Italia nel 2012, partendo dal Ghana era riuscito a sopravvivere alle prigioni libiche, i primi centri di detenzione che gli immigrati trovano sul loro cammino, foraggiati dagli Stati europei che cercano così di “aiutarli a casa loro”. Insieme ad altri si era messo su un barcone superando la fossa del Mediterraneo. Frederick pensava di avercela fatta. In Italia viene inserito nei circuiti di accoglienza, di carità e ghettizzazione, nelle trafile burocratiche per ottenere un titolo di soggiorno dove si fiondano i professionisti della mano tesa, che a forza di tendere mani si ritrovano le tasche piene, i politici dell’una e dell’altra sponda che parlano di benevolenza o del non “possiamo prenderli tutti”, a seconda delle convenienze elettorali da soddisfare. Fa mille lavoretti, prende una licenza media, resta in attesa di un asilo politico che non arriverà mai, si ferma su una panchina antistante un supermercato, finisce a chiedere l’elemosina e lì finisce pure i suoi giorni, una notte, per mano di due balordi minorenni. Era il povero che poteva morire, era il nero che si poteva pestare. Ucciso senza motivo scrivono i giornali. Ucciso perché i partiti hanno costruito sul corpo dei migranti il meccanismo più meschino per la propria conservazione, i due di 16 anni si sono sentiti autorizzati a compiere una violenza già espressa. Ovunque, tutti i giorni. Nelle dichiarazioni dei ministri, nelle leggi sull’immigrazione, nella barbarie dei centri di accoglienza, nei ricatti dei permessi, nella propaganda mediatica, nell’ipocrisia delle accuse tra istituzioni, nelle “indecisioni” sui soccorsi in mare, le loro mani era già sporche del sangue che gronda da una società che produce una violenza sistemica sugli immigrati. Frederick era il nero che poteva morire, perché ne muoiono già a migliaia. Migliaia in mare, tra Lampedusa, Crotone, Malta, Grecia. Altri, scampato il pericolo del naufragio, finiscono stritolati tra le fila dei proletari ammazzati del lavoro che serve a mantenere in piedi il baraccone capitalistico. Morti nei campi, nelle fabbriche. Morti sotto il sole, morti mentre costruivano una baracca per riposarsi dal lavoro, morti sotto un camion mentre erano in picchetto davanti a una fabbrica. Frederick non è morto solo sotto i calci e i pugni di chi l’ha voluto ammazzare, è morto sotto il peso di chi questa violenza la provoca, la orienta. Ora la città di Pomigliano si scopre affranta e ferita. La morte del giovane ghanese già fornisce succosi pretesti per chi recrimina maggiore sicurezza e controllo in città, una stretta poliziesca e normativa. C’è un andirivieni sulla sua panchina, chi lascia scritte e chi lascia fiori. Cordoglio pretesco e retorica istituzionale. Promesse ed omelie. Si alternano processioni e fiaccolate, organizzate dalle parrocchie e dai partiti politici. Davanti alla panchina di Frederick sfilano quelli che fino a ieri hanno sostenuto tutte le leggi che hanno portato Frederick a rimanere solo e ai margini e saranno pronti a sostenerle ancora da domani. Non oggi, perché oggi è il momento della preghiera, del cordoglio e delle parole di indignazione. Manifestazioni silenziose, così scrivono gli organizzatori, che si guardano bene dal proporsi come momento di raccordo con la popolazione immigrata delle aree limitrofe, della zona vesuviana e metropolitana, con la comunità ghanese, con tutti quegli immigrati che con Frederick condividono non solo le origini ma una condizione sociale, un’appartenenza di classe. Tenuti a debita distanza perché temuti. Preti, politici e militanti vari temono che il momento di preghiera e di finta costernazione possa essere turbato e sconvolto da chi non ci sta a farla finire così.
Per le strade cittadine spunta anche un manifesto del Pd con la scritta “Frederick sono io”. Chissà se Frederick la pensava così, che il Pd era lui, mentre finiva su una panchina senza lavoro, mentre era in attesa di un asilo politico da 11 anni, mentre veniva preso a calci e pugni; chissà se pensava che i militanti di sinistra che si mettono dietro i preti e i politicanti in religioso silenzio fossero proprio come lui; chissà se pensava che il sindaco di Forza Italia, che ha dovuto attendere l’esito delle indagini prima di commentare per paura di arrivare in soccorso a un possibile spacciatore, in quanto nero e clochard, fosse proprio come lui.
Frederick potrà rivivere solo nella rivolta. Di tanti suoi fratelli e sorelle che non accetteranno più la sottomissione, lo sfruttamento, l’ipocrisia caritatevole, la strumentalizzazione elettorale, ribellandosi a questo sistema. E non lo faranno in silenzio, non lo faranno con le prediche, le omelie, i fiori. Lo faranno domani, tra diecimila anni, lo faranno e saranno furiosi, furenti, saranno come devono essere e come nessuno li vuole.
A. B.
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