ISRAELE, LA GUERRA E GLI OPERAI

La condizione degli operai locali ed immigrati coinvolti nello scontro militare fra la borghesia israeliana e il movimento di liberazione dei palestinesi.
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La condizione degli operai locali ed immigrati coinvolti nello scontro militare fra la borghesia israeliana e il movimento di liberazione dei palestinesi.

Tutti i governi borghesi e imperialisti occidentali in seguito all’azione militare dei combattenti palestinesi del 7 ottobre 2023 ripetono in maniera ossessiva il loro incondizionato sostegno ad Israele ed alla eufemistica “legittima azione di difesa” che sta radendo al suolo Gaza, massacrando migliaia di civili: la maggior parte bambini, donne e anziani palestinesi. Il mantra è sempre quello: Israele, paese democratico circondato da monarchie e autocrazie arabe. Borghesia quella di Israele che condividerebbe gli stessi valori dei paesi imperialisti americani ed europei.
Affermazione quest’ultima che trova conferma nella condizione concreta degli operai in Israele in tempo di pace e di guerra. Nelle campagne, nell’edilizia e nell’assistenza lavorano circa 100 mila operai e badanti immigrati mentre i frontalieri palestinesi sono normalmente 98mila (Kav Laoved 2018).
Il numero di manodopera non israeliana in generale negli ultimi anni è stato in costante crescita. Rispetto al 2017 vi è stato un aumento del 17% degli operai immigrati, soprattutto asiatici ma anche tante lavoratrici europee dell’est per quanto riguarda il lavoro a domicilio. Anche la percentuale della manodopera palestinese, che entra giornalmente proveniente dai territori palestinesi occupati, ha avuto una crescita nello stesso periodo dell’11%.


La democrazia israeliana: moderna schiavitù degli operai
Tutti gli operai e le badanti arrivano in Israele grazie ad un permesso di lavoro ottenuto dall’intermediazione di organizzazioni criminali israeliane che operano anche nei paesi di provenienza degli operai. Il costo dell’intermediazione per ottenere il permesso può arrivare ad oltre 20mila dollari USA (€19 mila circa).
Questa situazione di moderna schiavitù, di cui il governo e la borghesia israeliana sono complici, costringe gli operai e gli altri lavoratori ad un secondo lavoro generalmente in nero, lavorando anche parte della notte per poter ripagare il debito (The Times of Israel 22/02/2023). La maggioranza degli operai immigrati, allo scoppio della guerra tra Israele e Palestina, sono rimasti intrappolati nel paese avendo accumulato troppi debiti in patria per anticipare il pagamento del permesso di lavoro e spesso non avendo neanche i soldi necessari per acquistare il biglietto aereo e ritornare nei paesi di origine. Saket, per esempio, una badante indiana di 29 anni, l’anno scorso ha pagato a un reclutatore più di 20.000 dollari per il suo permesso di lavoro e ha dovuto chiedere un prestito per pagarlo. Come le Filippine, anche l’India sta organizzando voli di rimpatrio per i suoi cittadini, ma Saket ha affermato che questa non era un’opzione praticabile per lei (The Guardian 23/10/23). Coloro che sono riusciti a prendere un volo, soprattutto i braccianti thailandesi, hanno creato un grosso problema al settore agricolo, con molte delle produzioni pronte per la raccolta rimaste praticamente senza operai che le raccolgano. Questa situazione ha costretto il ministro dell’agricoltura a richiedere al gabinetto di guerra la possibilità di fare entrare con urgenza, almeno 6mila braccianti palestinesi. La decisione sembra verrà messa ai voti questa settimana o la prossima.

Carne da macello. Perché un alto numero di morti tra gli operai immigrati?
I morti operai, sotto le bombe, tra gli edili e i braccianti si contano a decine. Nella operazione militare di giugno 2023 “Shield and Arrow” (Scudo e freccia) cioè nel rastrellamento e distruzione del campo profughi palestinese di Jenin ad opera dell’esercito israeliano, sotto i missili, provenienti in risposta da Gaza, morirono almeno tre persone tra braccianti agricoli e operai edili, molti sono rimasti feriti (Ka Laoved 05/06/2023).
Sono almeno 50, finora identificati, gli operai immigrati morti durante l’attacco palestinese del 7 ottobre 2023. Prevalentemente si tratta di operai asiatici. (The Guardian 23/10/23).
Il sito israeliano KA Laoved scrive apertamente che questo non è casuale. La responsabilità ricade principalmente sui padroni del settore agricolo e delle costruzioni nonché sul “Home Front Command” (Comando del Fronte Interno) organismo, quest’ultimo, responsabile delle indicazioni ai civili in caso di attacco.
Il numero sproporzionato di operai immigrati morti sotto i missili, potrebbe essere spiegato solo con l’obbligo padronale, per gli operai, di continuare a lavorare nei campi e nei cantieri anche durante il lancio di razzi proveniente da Gaza. Molto spesso, inoltre gli operai alloggiano nei campi e nei cantieri edili, lontano dai rifugi e senza nessuna protezione adeguata. I sistemi di allarme e comunicazione avvengono sempre in ebraico, i cellulari degli operai immigrati non sono inclusi nella applicazione di allarme del Comando del Fronte Interno.


Operai e stato di guerra
Le direttive del Ministero del Lavoro del governo Netanyahu emanate il 9/10/2023 suddividono gli operai autoctoni tra essenziali e non essenziali. Sono essenziali tutti i posti di lavoro che sono direttamente o indirettamente legate all’alimentazione, industria bellica, energia e sanità. Considerando che sono stati richiamati sinora 400 mila riservisti che vanno ad aggiungersi ai 177 mila dell’esercito, molti dei settori produttivi israeliani dovranno ridurre l’attività. Implicitamente i ritmi e le condizioni di lavoro di chi rimane in fabbrica sono destinati ad aumentare vertiginosamente.
In mancanza di manodopera la borghesia israeliana esercita sicuramente una forte pressione sui due milioni di palestinesi con cittadinanza israeliana non soggetti al servizio militare nell’esercito dei padroni israeliano, ma su questo si hanno scarsissime notizie.
Mentre per gli operai israeliani rimasti nelle produzioni essenziali gli obblighi emergenziali sono chiari, ne citiamo alcuni: la mancata presentazione dell’operaio al lavoro può essere considerata un reato, prolungamento della settimana lavorativa qualora le produzioni che hanno avuto un calo di manodopera del 20% e oltre non siano in grado di mantenere la produzione con il numero di addetti rimasti.
In caso di necessità si potrà arrivare a 25 ore settimanali di straordinario. La settimana lavorativa potrà essere portata a 67 ore. La giornata lavorativa individuale potrà essere estesa a 14 ore giornaliere.
M.C.

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