Mentre a Roma Mittal, Governo e capi sindacali discutono di buonuscite, nuova governance e nazionalizzazione, per gli operai, ad ogni giro di tavolo, la situazione continua a peggiorare. Finché verranno coinvolti nella scelta del proprio padrone finiranno per consegnargli la testa con tutto il collo.
I sindacati, dopo aver confuso gli operai con chiacchiere su cambiamento di governance e nazionalizzazione, ora sono pronti a svenderli a nuovi padroni privati, con la benedizione del governo Meloni. Per gli operai la migliore risposta è mettere sul piatto rivendicazioni concrete come l’integrazione salariale per tutti i cassintegrati e il loro rientro in fabbrica, il ritiro della sospensione dal lavoro degli operai delle imprese, misure reali di sicurezza e tutela della salute.
Nello stabilimento siderurgico di Taranto di Acciaierie d’Italia gli operai non possono fare la doccia prima di terminare il turno di lavoro e tornare a casa. Infatti da settimane gli spogliatoi della portineria “operai” sono privi di acqua calda. Non potendosi lavare, gli operai portano fuori dalla fabbrica, nella propria casa, le polveri inquinanti che già sono costretti a respirare in fabbrica. È un grave problema di mancanza di tutela dell’igiene e della salute degli operai e delle loro famiglie, che ricorda gli effetti disastrosi delle polveri di amianto anche sui familiari degli operai. Un problema che si trascina da tanto tempo, che non si risolve e anzi peggiora per mancanza di corretta manutenzione e, addirittura, di pezzi di ricambio per la caldaia!
Noi, riguardo all’attuale situazione dell’ex Ilva in generale e di Taranto in particolare, partiamo dall’impossibilità per gli operai siderurgici di fare una semplice doccia calda dopo otto ore di dura fatica tra polveri e fumi. Non ci inerpichiamo in vuote considerazioni su “cambiamento della gestione (governance)”, “intervento pubblico”, “nazionalizzazione” e così via. Queste sono le chiacchiere fumose con cui Fiom, Uilm e Usb da quasi due anni portano avanti le loro “politiche aziendali” e confondono gli operai di Acciaierie d’Italia, di Ilva in Amministrazione straordinaria (As) e delle imprese dell’appalto, chiamandoli persino, in più occasioni, allo sciopero su tali chiacchiere sbandierate come parole d’ordine. Hanno chiesto l’allontanamento di ArcelorMittal dalla gestione di Acciaierie d’Italia, perché non avrebbe soddisfatto gli impegni di investimento promessi, sventolando la bandiera della nazionalizzazione come soluzione vantaggiosa per gli operai e per l’ambiente. Hanno prima plaudito all’ingresso di Invitalia (favorito dal governo Conte II) nel capitale di Acciaierie d’Italia e poi pressato e litigato con il governo Meloni, sfavorevole a un eccessivo intervento pubblico nell’ex Ilva e contrario alla sua nazionalizzazione, e con la Fim, sindacato, come l’intera Cisl, pienamente allineato con l’attuale governo.
Fiom, Uilm, Usb e Fim, sindacati tutti e quattro firmatari dell’accordo del 6 settembre 2018, voluto dal governo Conte I, che consegnava l’ex Ilva ad ArcelorMittal e le lasciava libertà di manovra nella gestione della forza lavoro operaia (con espulsione dal ciclo produttivo, considerando solo Taranto, su oltre 14.000 operai, di ben 6.000, di cui 3.000 indotti ad autolicenziarsi in cambio di alcune migliaia di euro e altri 3.000 messi in cassa integrazione in Ilva in AS), adesso che l’ArcelorMittal vuole apertamente defilarsi da Taranto e dall’Italia, non hanno neanche il coraggio di dire: “Abbiamo sbagliato!”. Non hanno il pudore di ammettere che nel 2018 hanno consegnato l’ex Ilva a Arcelor- Mittal che, come era già allora prevedibile, ha fatto in questi anni solo i propri interessi: ha spremuto, vessato, cassintegrato e licenziato gli operai come e quando ha voluto, ha ridotto o aumentato la produzione come e quando le ha fatto comodo, ha munto da tutti i governi tutti i milioni di euro che ha preteso, ha accumulato tutti i debiti che ha potuto verso le imprese dell’appalto, che ne hanno prontamente scaricato il peso sui propri operai, e adesso vuole andarsene previo pagamento di un indennizzo di 400 milioni di euro per presunta inadempienza del socio pubblico, Invitalia, la cui partecipazione era stata inventata proprio per mettere milioni di euro a disposizione della multinazionale e indurla a restare! Un autentico fallimento dei sindacati e dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni, Conte I, Conte II, Letta, Draghi e Meloni. Un fallimento nel quale trovano brodo caldo mestatori di professione, come giornalisti, economisti e politici che retroprofetizzano che la vendita nel 2018 all’altro grande gruppo indiano Jindal, concorrente di ArcelorMittal, avrebbe sortito migliore effetto! O come certi ambientalisti che invocano la chiusura immediata dell’ex Ilva, fregandosene però delle sorti salariali degli operai!
Adesso che ArcelorMittal non ha altro da lucrare, se non i 400 milioni di euro di “buonuscita”, hanno un bel dire sindacalisti come Rocco Palombella, segretario generale della Uilm che si è costruito una carriera sulla pelle degli operai tarantini, che “indietro non si torna”. Lui che nel 2018, come l’ex viceministro allo Sviluppo Teresa Bellanova, chiedeva di “affrettare” l’ingresso di Mittal che intanto ribadiva “l’impegno a raggiungere un accordo soddisfacente con i sindacati per costruire soluzioni condivise e sostenibili”! L’accordo fu quello disastroso per gli operai del 6 settembre 2018… Adesso i sindacati metalmeccanici, dopo aver gettato per mesi negli occhi degli operai il fumo del “cambiamento di governance”, sostengono in maniera ancora più aperta che “l’Ilva si salva solo se torna sotto il controllo statale”, “a Taranto si lotta per l’Italia. Allo Stato la gestione ex Ilva”. Illudendo gli operai che il ritorno alla proprietà statale possa garantire piena occupazione e risanamento ambientale, ne usano il numero per i propri scopi. Il loro vero obiettivo, oggi come nel 2018, non è tutelare il salario, la sicurezza e i diritti degli operai (privati persino dell’acqua calda!), bensì, come fanno in ogni fabbrica, ribadirsi parte integrante della classe dirigente e contribuire alla gestione del ciclo economico e produttivo, orientandolo secondo interessi padronali e/o nazionali che coincidono con i propri!
Ma il governo Meloni, che già mal tollerava l’intervento pubblico con Invitalia, non vuole scottarsi con la patata bollente della nazionalizzazione e quindi della gestione diretta degli stabilimenti siderurgici. Perciò ha aperto la strada a un’amministrazione straordinaria temporanea che rimetta a breve l’ex Ilva sul mercato. I sindacati hanno già dichiarato disponibilità a discutere (una delegazione dell’Usb è andata in udienza a Roma dal cardinale Zuppi per ricevere conforto e chiedere consiglio!). A questo punto che cosa faranno? Di nuovo, per salvare la barca, accetteranno di buttare a mare alcune migliaia degli operai suoi attuali occupanti? Quanti operai sono disposti a sacrificare per far continuare a produrre acciaio, a quelli che rimarranno, per i nuovi padroni? Qual è il prezzo che sono pronti a far pagare agli operai siderurgici di Taranto, Cornigliano e Novi Ligure? Per quanto ancora li imboniranno mentre gli stanno scavando la fossa sotto i piedi?
Per gli operai siderurgici, come abbiamo già più volte ribadito in questi anni, è indifferente che la proprietà rimanga privata, nelle mani di ArcelorMittal o di un altro gruppo industriale, italiano o straniero, o diventi pubblica: non cambia nulla, saranno comunque sempre sfruttati. Gli operai che si scelgono un padrone piuttosto che un altro, gli consegnano la testa con tutto il collo! Se invece gli operai, piuttosto che aderire a scioperi farsa e cortei-processioni o dare adito a chiacchiere vuote sindacali o rimanere in attesa di decisioni governative antioperaie, mettessero autonomamente e unitariamente sul piatto rivendicazioni concrete come l’integrazione salariale per tutti i cassintegrati e il loro rientro in fabbrica, il ritiro della sospensione dal lavoro degli operai delle imprese dell’appalto, misure reali di sicurezza e tutela della salute e affermassero tali richieste con il blocco della produzione e cortei di protesta seria in fabbrica e per le strade, costringerebbero padroni (privati e pubblici), sindacalisti e politici di ogni colore a misurarsi sugli interessi concreti in fabbrica e a verificare la loro concreta posizione. E, nello stesso tempo, acquisterebbero maggiore fiducia nella propria forza indipendente.
L.R.
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