ARRENDERSI O RIBELLARSI

Per gli operai le condizioni in fabbrica sono diventate insopportabili, tanti sopportano, stringono i denti fino a spezzarsi, altri si arrendono e se ne vanno con la speranza di una vita migliore. Ma c’è sempre un’altra possibilità collettiva ribellarsi.
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Per gli operai le condizioni in fabbrica sono diventate insopportabili, tanti sopportano, stringono i denti fino a spezzarsi, altri si arrendono e se ne vanno con la speranza di una vita migliore. Ma c’è sempre un’altra possibilità collettiva ribellarsi.

La condizione di fabbrica è diventata insopportabile. Il lavoro è aumentato, le condizioni sono peggiorate, dall’igiene nei reparti alla sicurezza, i salari sono al palo e, rispetto all’aumento dei prezzi, sono di gran lunga minori di qualche tempo fa. Rispetto a tutto questo, gli operai non sanno più come reagire. Le organizzazioni sindacali o sono inconsistenti, o sono capaci di fare solo chiacchiere e comunicati senza mettere in campo azioni di lotta, o sono apertamente allineate agli interessi del padrone. La reazione operaia è individuale e di per sé perdente.
È così nelle grandi fabbriche. Per forza di cose è ancora peggiore in quelle piccole, dove reagire al padrone è stato sempre più complicato che nei grossi stabilimenti.
Il singolo operaio si aggira in queste galere senza potersi liberare. Il lavoro ripetitivo, faticoso, non si sopporta. Col tempo maturano piccole e grandi patologie per i movimenti obbligati da fare sempre nello stesso modo sulle postazioni. Comincia così un percorso ancora più insopportabile. Non si riesce a sostenere il lavoro come prima e allora si marca visita. Si va in infermeria. Ci si mette in malattia. I capi cominciano ad additarti come un lavativo. Inizialmente, invece di assegnarti carichi di lavoro come agli altri, ti danno postazioni meno pesanti, meno operazioni da gestire e al posto tuo piazzano altri operai, quelli che non possono, o non sanno dire di no, perché hanno famiglia, hanno paura di perdere il posto, non vogliono farsi schedare come rcl (ridotte capacità lavorative) perché questo significa entrare nel girone degli “inutili”, di quelli che prima o poi l’azienda troverà il modo di buttare fuori.
Proprio di questi temi, in questi giorni, ho parlato con un operaio che lavora in un grosso stabilimento dove producono componentistica per diversi settori, in particolare quello automobilistico, ma non solo per l’ex Fiat. È direttamente coinvolto su questi problemi. È un appassionato di sport estremi e ha subito mesi fa un grosso infortunio che lo ha bloccato completamente sulle cose divertenti che faceva, ma, dal punto di vista medico, gli hanno detto che può continuare a lavorare. Divertimento no, fabbrica sì. In realtà non ce la fa neanche in fabbrica perché i dolori fisici sono costanti e i ritmi di lavoro sono sempre più alti.
“Prima lavoravo su una sola postazione, poi sono diventate due, poi tre. Oggi sono quattro. Non ce la faccio. Sono costretto ad assentarmi, o ad andare in infermeria. Non sono mai stato un lavativo, ma ora non ce la faccio. Al capo, quando arrivo al limite gli dico basta e lui mi riduce le postazioni che però vengono assegnate ad altri. Spesso questi non stanno meglio di me e io mi sento in colpa per l’aggravante di lavoro che procuro a qualche collega. Mi dispiace, ma mi dico anche: “se io sono capace di dire al capo che non ce la faccio, potrebbero farlo anche gli altri”.
Tutta questa situazione gli ha pesato molto ed ora è arrivato ad una decisione drastica.
“Ho sofferto tantissimo per il fatto di non poter più fare le cose che mi piacevano. Ma ho avuto anche modo di riflettere sulla mia vita. Ho quarant’anni. Non ho famiglia. Prima vivevo per i fine settimana, ora la fabbrica è la mia unica realtà. Che senso ha? Lì non mi farò mai i soldi, li farò fare solo al padrone. Vedo i compagni anziani che da una vita lavorano in quella galera e, letteralmente si trascinano avanti in quella condizione insopportabile. Io ho deciso di dire basta. A breve me ne vado, mi licenzio. L’unico rammarico è che dove lavoro io non hanno ancora problemi di esuberi e quindi non mi daranno nessun incentivo per andarmene. Ma va bene lo stesso. Due anni di disoccupazione me li daranno e qualcosa da parte ce l’ho. Per un po’ di tempo posso andare avanti. Ho deciso di andarmene un po’ in giro. Sud America. Lentamente. Se ci riesco voglio arrivare fino in Messico. Quando finirò i soldi vedremo. Ho sempre lavorato. Spesso nella ristorazione. Guadagnare 50 euro per sopravvivere non è mai stato un problema per uno come me. E comunque tutto è meglio di quel girone dell’inferno della fabbrica. Mattina, pomeriggio, notte. Sempre lo stesso fino a quando ti rottamano. I miei problemi fisici mi hanno dato la possibilità di riflettere e la risposta che mi sono dato è: che senso ha?”.
Se un operaio non si ribella, se non decide di fare la guerra al padrone, è solo uno schiavo che farà una vita pessima e, spesso, più breve rispetto agli altri. In questa fase storica, senza un’organizzazione propria, senza l’unità con gli altri operai, senza la lotta, gli operai che non hanno alternative, sono costretti a piegare la testa e accettare quello che il padrone impone. Chi può scappa via. Ma le soluzioni individuali, anche avvolte di romanticismo, sono inutilizzabili dalla massa degli operai, a cui resta solo la strada della ribellione alla loro condizione di schiavi.
F. R.

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