Acciaierie d’Italia in a.s. chiede la cassa integrazione per 5.200 dipendenti, i sindacati cincischiano e invocano un tavolo tecnico. Gli operai per adesso rimangono inerti, ma non hanno nulla da sperare né dagli attuali commissari di stato né dai futuri investitori
I commissari di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria (AdI) hanno chiesto al ministero del Lavoro e delle politiche sociali e al ministero delle Imprese e del made in Italy, la cassa integrazione guadagni straordinaria per tutti i siti aziendali dell’ex Ilva, per l’intero periodo di amministrazione straordinaria e quindi per tutta la durata della gestione commissariale. Della nuova Cigs hanno già dato comunicazione alle rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) e alle organizzazioni sindacali. Riguarderà, a rotazione, ben 5.200 dipendenti (di cui 4.400 a Taranto), pari al 53% dei 9.869 dipendenti totali! Eppure nelle fabbriche appartenenti all’ex Ilva, e in primo luogo a Taranto, non si scorge un accenno di opposizione alla richiesta di Cigs, non si vede una parvenza di lotta per conservare il posto di lavoro.
L’OBIETTIVO, RENDERE L’EX ILVA APPETIBILE A NUOVI INVESTITORI
Nella lettera con cui hanno comunicato il ricorso alla Cigs a ministeri, sindacati e Regione Puglia, i commissari di AdI spiegano che l’obiettivo perseguito dal loro piano di risanamento finanziario e di riassetto industriale è “stabilizzare il livello di produzione in coerenza con le attuali capacità produttive e finanziarie consentendo, anche attraverso la drastica riduzione dei costi, di limitare e, in un secondo tempo, annullare le perdite di esercizio” e promettono che la progressiva attuazione del programma “consentirà di pervenire gradualmente ai livelli produttivi attesi e, al completamento dello stesso, al pieno utilizzo dell’organico e quindi anche del personale sospeso”.
Anche il ministro Urso promette, “con la ripresa del secondo altoforno di Taranto in ottobre e la riattivazione del terzo altoforno a metà del 2025, di riportare la produzione dai minimi attuali di un milione di tonnellate a 4 milioni e poi a 6 milioni”, e intanto si dichiara fiducioso sul via libera dell’Ue al prestito ponte da 320 milioni di euro per la salvaguardia degli impianti e il ripristino della loro attività produttiva e chiede di aumentare la produttività agli operai che rimarranno a lavorare. L’obiettivo è rendere appetibile l’ex Ilva a nuovi investitori. E a favore dei possibili interessati (cinque multinazionali, fra cui il colosso ucraino dell’acciaio Metinvest, Vulcan Green Steel del gruppo indiano Jindal e l’italiana Arvedi) Urso ripete che per la riconversione degli stabilimenti ex Ilva alla produzione senza utilizzo di carbone nel 2028 “è previsto un finanziamento di un miliardo di euro a carico del Fondo di coesione e sviluppo, per la realizzazione di un impianto di preridotto, come alternativa all’impiego di rottame ferroso o ghisa. Sono disponibili, per chiunque si aggiudicherà gli asset produttivi, finanziamenti per circa 700 milioni di euro attraverso l’utilizzo di contratti di sviluppo”.
IL SOLITO RITORNELLO SINDACALE: MANCA UN PIANO INDUSTRIALE
Benché il piano di risanamento finanziario e riassetto industriale dei commissari per rimettere l’ex Ilva sul mercato sia chiaro, i dirigenti sindacali di ogni livello ripetono il solito ritornello che manca un vero piano industriale che potrebbe giustificare la Cigs, pretendono di insegnare a padroni e commissari di stato come si gestisce un’azienda siderurgica e così portano gli operai sul terreno della discussione sul piano migliore per la ripresa dell’azienda, da cui dipenderebbero il ritorno al lavoro e la sua continuità!
Per Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, “non si è mai vista una cassa integrazione non legata a un piano industriale, ma alla durata del commissariamento. È assurdo passare da una richiesta di Cigs per 3.000 persone a un’altra per 5.200, dal 30% a oltre il 50% dei lavoratori. Come è possibile conciliare la vendita di Acciaierie d’Italia con tutto questo? Cosa mette il governo sul mercato, la cassa integrazione o un piano industriale credibile e con i giusti investimenti? Per quanto ci riguarda, questa richiesta di cassa integrazione rappresenta un disastro sociale, ambientale, occupazionale e produttivo. Chiediamo immediatamente una convocazione del tavolo permanente aperto a Palazzo Chigi con la presenza del presidente Meloni”.
Per Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil, “la richiesta viola gli impegni presi per la ripartenza. Come Fiom-Cgil vogliamo discutere di lavoro e di un piano di ripartenza che garantisca prospettive per la produzione, l’occupazione, la salute e la sicurezza e l’ambiente”. “Con questi numeri – commentano Francesco Rizzo e Sasha Colautti dell’esecutivo confederale Usb – si chiude, non si rilancia”.
CASSA INTEGRAZIONE PER 3718 OPERAI
Dunque per i futuri padroni finanziamenti e incentivi, per gli operai cassa integrazione e maggiore sfruttamento per aumentare la produttività. Ma quanti sono gli operai coinvolti? Vediamo i numeri. Attualmente in AdI i dipendenti sono 9.869 di cui 6.720 operai. A Taranto lavorano 8.025 addetti, di cui 5.536 operai, a Genova 948, di cui 655 operai, e a Novi Ligure 573 di cui 389 operai.
Per Taranto il piano di AdI prevede che vadano in Cigs 1.854 addetti dell’area servizi e staff, di cui 1.205 operai, 1.276 addetti dell’area laminazione, di cui 1.042 operai, e 1.270 dell’area fusione, di cui 921 operai. Taranto è l’unico sito di AdI dove la nuova cassa è articolata per aree. Gli altri 800 cassintegrati (di cui 550 operai e 250 tra impiegati e quadri), per arrivare ai 5.200 totali annunciati da AdI, sono divisi in 25 a Racconigi, 20 a Legnaro, 245 a Novi Ligure, 40 a Marghera, 400 a Genova, 50 a Milano, 20 a Paderno.
LA SOLUZIONE INDIVIDUALE
Nonostante in quasi 4.000 siano prossimi alla Cigs, dagli operai non sono emersi, però, finora, segnali aperti di critica, lotta, rivolta. Come mai? È in situazioni come questa che appare evidente il frutto velenoso dell’attività antioperaia svolta con metodo per decenni dai dirigenti sindacali di ogni livello, finalizzata a sabotare ogni volontà operaia di ridurre ritmi e carichi di lavoro e di migliorare le condizioni di lavoro, in primo luogo la sicurezza, e ad accettare supinamente la cassa integrazione come male minore, spacciandola addirittura come una conquista. A furia di sgonfiare il malcontento operaio limitando l’opposizione in fabbrica alla richiesta di tavoli di confronto e alla richiesta di piani industriali, prima con i Riva, dopo con Arcelor Mittal, adesso con i commissari di stato, hanno spento negli operai lo spirito di lotta. Al quale è subentrata una impotente rabbia rassegnata. Una rassegnazione alimentata anche dalla difficoltà di far emergere autentiche avanguardie operaie combattive che fungano da stimolo e da collante per tutti gli altri operai. Se è vero che fra i 3.000 cassintegrati di Ilva in amministrazione straordinaria, risultato dell’accordo antioperaio del 6 settembre 2018 firmato da Cgil, Cisl, Uil e Usb, furono compresi alcuni degli operai più combattivi, è pure vero che qualcuno di questi preferì far parte degli altri 3.000 che accettarono la buonuscita in denaro e andarono spontaneamente via. Come colui che chiamava “fratelli” gli operai e guidava i cortei, ma poi li ha abbandonati preferendo tentare l’iniziativa privata dell’apertura di un ristorante.
Per gli operai la conseguenza immediata della rabbia impotente e della debolezza rassegnata è stata, per il momento, la ricerca di una soluzione individuale, di una pragmatica sopravvivenza per arrivare a fine mese e non morire di fame e stenti. Chi parla, però, di lassismo degli operai, di imborghesimento o di svolta a destra, o non conosce la condizione materiale degli operai oppure è in malafede e si frega le mani.
Quanto guadagna un metalmeccanico dell’ex Ilva di Taranto? Gli operai di terzo livello, i più numerosi, hanno un salario netto di circa 1.200 €. Per essi un taglio del 25% corrisponde a 300 euro o più. Come può riuscire un operaio a mantenere una famiglia di 3-4 persone con un salario di 900 € o meno al mese? Come fa a pagare un mutuo o un affitto? Come riesce a fronteggiare le spese necessarie per sopravvivere? Mangiare, pagare le bollette, mandare i figli a scuola, tutto richiede soldi. E poi i problemi di salute, le tasse, gli imprevisti quotidiani e così via. Pur tralasciando le cure del dentista e le visite specialistiche, che per le famiglie di operai sono diventate un lusso, realmente non si arriva a fine mese!
L’operaio in cassa integrazione sa bene che nessuno può aiutarlo, che i compagni di lavoro sono disperati come lui, che non ha nessuno a cui rivolgersi per chiedere una elemosina e che l’alternativa pericolosa è cadere nelle mani degli usurai. Quando si vede solo e avvilito, capisce che per sopravvivere si deve dare in qualche modo da fare e arrangiarsi per arrotondare il misero salario. Allora l’operaio cerca, se ci riesce, la soluzione individuale. Il lavoro sommerso offre risorse. Chi può accetta di lavorare a nero in carrozzeria, in falegnameria, in campagna, per lavoretti nell’edilizia o altrove.
Chi, più fortunato, ha la disponibilità di un pezzo di terreno acquistato in tempi migliori o ricevuto in eredità, da operaio-contadino quale è stato fino a quel momento diventa contadino a tempo pieno. Se è vero che in Puglia la concentrazione fondiaria capitalistica ha fatto aumentare la superficie media aziendale, è pure vero che la frammentazione fondiaria esiste ancora sotto forma di piccola proprietà molto diffusa. E allora un campetto di poche centinaia o migliaia di metri quadrati può diventare un orto e/o un frutteto e offrire ortaggi, verdure, legumi, frutta e persino olio d’oliva che possono integrare in natura il bilancio familiare. Ma il campetto richiede cura, impegno e tempo. L’operaio cassintegrato si adatta, si sacrifica, ma così assorbe dal campetto l’autentico spirito contadino, cioè diventa individualista e si distrae dalla potenziale lotta comune, la dimentica.
Non si tratta, qua, di fare antropologia sociale spicciola, ma di analizzare la condizione materiale vissuta, in particolare, dagli operai dell’ex Ilva di Taranto, i più numerosi fra quelli destinati alla Cigs. Operai che, peraltro, non vivono concentrati tutti nelle malsane periferie della città jonica, ma provengono da tanti paesini distanti fra loro e in essi vivono sparpagliati e dispersi.
LA PROSPETTIVA: SOLUZIONE INDIVIDUALE O LOTTA COLLETTIVA?
Fin quando potrà mantenersi in piedi questo castello di carte? Non per sempre, è evidente. Forse fino al termine della gestione commissariale. Poi l’ex Ilva passerà di mano a un nuovo investitore, un’altra multinazionale che, come ha fatto Arcelor Mittal nel 2018, chiederà e imporrà la riduzione della forza lavoro, il licenziamento di alcune migliaia di operai. A quel punto accadrà la solita falsa baraonda, i sindacati organizzeranno qualche manifestazione di piazza a tempo scaduto, invocheranno un ennesimo inutile tavolo tecnico e poi con finta riluttanza andranno a firmare un nuovo accordo antioperaio, spacciandolo come il male minore per salvare l’azienda. Gli operai, che per sopravvivere hanno guardato troppo davanti ai propri piedi, perdendo così la prospettiva della lotta comune, si troveranno allo sbando e incapaci di reagire. Chi si troverà fuori, in mobilità, dovrà fare i conti con una miseria da cui non potranno salvarlo né il lavoretto in nero né il campetto, chi rimarrà dentro sarà costretto a piegare maggiormente la schiena. Guardando lungo, non è meglio cominciare a discutere subito su come organizzarsi per opporsi adesso alla cassa integrazione che AdI vuole imporre?
L.R.