SIAMO TUTTI “ITALIANI”, MA QUELLI DI SCAMPIA E GLI ALTRI ABITANTI DEI QUARTIERI POVERI, UN PO’ MENO

I tre morti per il crollo alle Vele di Scampia, al di là delle chiacchiere, squarciano il velo di mistificazione e silenzio sul fatto che milioni di persone, degli strati più bassi della società, non hanno una casa decente dove vivere.
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I tre morti per il crollo alle Vele di Scampia, al di là delle chiacchiere, squarciano il velo di mistificazione e silenzio sul fatto che milioni di persone, degli strati più bassi della società, non hanno una casa decente dove vivere.

Il crollo nelle Vele di Scampia che ha provocato tre vittime, ci riporta alla realtà delle condizioni abitative della parte più povera delle classi subalterne. È un problema che è stato completamente rimosso dalla società attuale e denota la mancanza di organizzazione e peso sociale degli operai prima di tutto, e dell’insieme delle classi che stanno sotto. È una situazione ormai generale nella opulenta società occidentale anche se le differenze tra i diversi paesi sono molto marcate. In Francia e Inghilterra, per esempio, anche se in continuo calo, le case popolari (ERP edilizia residenziale pubblica) sul totale delle abitazioni sono ancora poco al di sotto del 20% delle abitazioni complessive, più o meno nella media UE. Anche se ci sono realtà specifiche, come per esempio la città di Vienna, dove la consistenza della ERP arriva al 60% delle abitazioni complessive.
In Italia siamo al 4% circa, ma da tempo non si fanno più statistiche su questo argomento, quindi è presumibile che la situazione sia ulteriormente peggiorata.
I dati pre covid ci parlano di un parco ERP di poco più di 700.000 abitazioni, da allora sicuramente diminuite, e di oltre 1.200.000 nuclei familiari in situazione di “disagio economico acuto” che non beneficiano di abitazioni ERP, numero che da allora è sicuramente aumentato.
Le “case popolari” in Italia si è cominciato a costruirle all’inizio del 900, in un clima di grosso scontro sociale e sull’onda di una pressione operaia molto forte.
Dopo la seconda guerra mondiale, con le classi subalterne ancora forti della vittoria sul fascismo e con una certa “dimestichezza” con le armi, lo Stato, tramite l’INA Casa e GESCAL, sviluppò ulteriormente la costruzione di case popolari, e cosa fondamentale, finanziò direttamente la loro attuazione.
Negli anni Settanta, vengono compiuti ulteriori passaggi per potenziare ulteriormente il settore. Nel 1971 venne promulgata la legge 865 (22 ottobre) che di fatto trasformò gli Istituti Case Popolari da Enti Pubblici Economici ad Enti Pubblici non Economici con prevalenza, pertanto, dell’attività pubblico-assistenziale. E con la Legge 457/1978, gli IACP poterono contare su sovvenzioni programmate per potenziare l’efficienza degli interventi. Sempre al 1978 (27 luglio) risale anche la legge 392 cosiddetta legge per l’equo canone, che tentò invano di legare gli affitti, privati, ma anche nell’ambito ERP, alle condizioni reddituali familiari. Tutti passaggi avvenuti negli anni Settanta con le classi subalterne in movimento e con i ricchi e i padroni sulla difensiva.
Dopo gli anni settanta, finito il ciclo di espansione del capitale e iniziata la crisi economica, con gli operai sulla difensiva per le ristrutturazioni in atto e le perdite di posti di lavoro, e i movimenti della piccola borghesia in crisi perché incapaci di uno sbocco positivo dopo oltre dieci anni di mobilitazioni e con il fiato sul collo della repressione, i ricchi si riorganizzano e cominciano a smantellare pezzo su pezzo le cosiddette “conquiste” delle classi subalterne degli anni precedenti. Gli operai non sono riusciti a darsi una organizzazione indipendente e le organizzazioni “rivoluzionarie” della piccola borghesia non hanno nessun peso. Lo Stato dei padroni può fare affidamento su tutti i partiti parlamentari senza nessuna opposizione sostanziale.
Nel 1998, la classe dei padroni edili comincia la sua riscossa, aprendo una fase di profitti eccezionali non ancora conclusa a tutto discapito di operai e classi subalterne. Nel 1998, infatti, viene approvata la legge 431 “Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili ad uso abitativo” con cui il parlamento del governo D’Alema con una vasta maggioranza trasversale che coinvolge anche Alleanza nazionale, abolisce l’equo canone dando mano libera ai padroni sugli affitti delle case.
Ancora nel 1998, un altro governo di “sinistra” con a capo Prodi, con il Decreto Legislativo 31 marzo 1998 n° 112 per il decentramento amministrativo, cambia radicalmente la disciplina generale dell’intervento pubblico nel settore abitativo trasferendone le competenze alle Regioni, però senza trasferimento di risorse, e i nuovi enti creati ad hoc per la gestione del patrimonio residenziale pubblico, le Aziende Casa, assumono la forma di Enti Pubblici Economici, cioè enti che devono trovare da sé i finanziamenti per le ristrutturazioni e le nuove costruzioni ERP, il che è reso possibile solo aumentando i canoni d’affitto e vendendo le case popolari ai privati.
E infatti, l’eliminazione dei finanziamenti pubblici faranno cessare quasi del tutto la costruzione di nuovi edifici ERP, mentre gli enti locali autorizzeranno la vendita di parte del patrimonio esistente e l’aumento degli affitti delle case popolari.
Anche i fondi GESCAL furono eliminati, senza però eliminare i contributi dei lavoratori che servivano, insieme ai fondi dello Stato per costruire “case per i lavoratori”.
Dal 1998 scompare dal bilancio dello Stato ogni finanziamento per l’ERP. Rimarranno nelle disponibilità dello Stato i residui GESCAL che ammontano a quasi un miliardo di euro che, per quello che se ne sa, sono ancora lì senza utilizzo.
L’edilizia popolare, da allora, sarà finanziata solo con i soldi delle vendite ai privati e con gli affitti, sempre più alti. In realtà la vendita porterà solo a una vera e propria dismissione del patrimonio immobiliare pubblico a prezzi stracciati facendo guadagnare ancora una volta le classi privilegiate.
L’eliminazione dei finanziamenti all’edilizia popolare è stata sostituita dall’intervento statale a favore dei privati con leggi ad hoc sotto forma di superbonus di vario tipo (110%, bonus facciate, ecc).
Gli stessi fondi del Programma Innovativo Nazionale Qualità Abitare (PINQUA) tanto decantati e che prevedono diversi miliardi di investimento, sono per la rigenerazione urbana e per il cosiddetto housing sociale, e il ruolo dell’attore pubblico diviene quello di promuovere interventi nel campo edilizio ‘socialmente orientati’. Questi fondi non hanno niente a che fare con l’assegnazione di abitazioni agli strati più bassi della società.
Per accedere ad un appartamento appartenente all’housing sociale è necessario avere un ISEE maggiore di 15.000 euro, cioè al di sopra del reddito che dà diritto di accedere all’edilizia popolare e il reddito non deve essere sufficientemente elevato da prendere in affitto un immobile a prezzi di mercato. Una misura orientata quindi alla piccola borghesia e agli strati più alti tra gli operai.
Per gli strati più bassi non c’è niente. Le poche case “popolari” rimaste vengono ormai assegnate con criteri sempre più restrittivi che limitano l’accesso di solito a immigrati e ai più disperati tra i poveri, come la clausola, attuata da molti Comuni, di non assegnare case popolari a chi è stato coinvolto in occupazioni abusive.
Quello che abbiamo fin qui detto, spiega anche come mai migliaia di abitanti delle Vele continuano ad abitare in quel posto anche rischiando la pelle. La spiegazione è semplice: Non hanno alternative.
Tra la popolazione delle Vele e lo Stato è in corso una vera e propria guerra. Così si spiegano gli sgomberi intimati dalle autorità e non attuati, le occupazioni immediate degli appartamenti che si liberano da parte di nuove famiglie. Rispetto a questo, i giornali hanno riportato in questi giorni la notizia che esiste un’organizzazione del Comune che viene definita dei “distruttori”. Il suo compito è appunto quello di distruggere gli appartamenti che si liberano nella Vela Celeste, rampa di accesso compresa, e murare gli ingressi. Ma anche questo non funziona, perché appena spariti i distruttori, nuovi inquilini arrivano e riparano i danni per rendere di nuovo l’appartamento abitabile.
In questa continua guerra, gli abitanti delle Vele hanno imparato a non dar tregua al nemico e a non credere assolutamente alle promesse che arrivano. Non a caso hanno occupato immediatamente la sede universitaria di Scampia, altro esempio di come creare una parvenza di “normalità” senza incidere sulle questioni essenziali, perché non hanno creduto alla solidarietà a chiacchiere che si è messa in moto subito dopo i morti. E non hanno fatto male. Il Comune ha stanziato da 400 a 900 euro al mese come contributo alle famiglie per trovarsi da sole una sistemazione alternativa provvisoria anche in strutture legate all’accoglienza. Al momento non ci sono notizie certe sugli esiti. E’ prevedibile che non ci saranno molte risposte positive in una città come Napoli, in pieno boom turistico, dove le case ormai valgono oro. Inoltre, sulla questione del contributo, come al solito, le “istituzioni” fanno il gioco delle tre carte. Manfredi il sindaco, a cui interessa solo liberare la facoltà universitaria occupata, ha dichiarato che la platea di coloro che potranno beneficiare dell’aiuto del Comune, si limita a quelli che risultano da un censimento di due anni fa che, tra sfratti e nuove occupazioni, sono nel frattempo cambiati. Tutti gli altri implicitamente sono esclusi.
I politicanti continuano ad affidarsi al “mercato”, per loro l’unico Dio che tutto risolve e ai loro giochetti.
Invece bisogna riprendere la strada della lotta contro i padroni e i loro servi della politica. Basta con i privilegi dei pochi e la sofferenza dei più.
Basti pensare che sarebbe sufficiente una parte del patrimonio privato vuoto ed inutilizzato per soddisfare completamente il bisogno di casa da parte della popolazione in emergenza abitativa.
Se gli operai e le altre classi subalterne fossero organizzati, il primo passaggio da fare sarebbe: occuparle.
F.R.


Nota: molte notizie storiche sono state tratte dall’articolo LA CASA POPOLARE IN ITALIA: STORIA, ANALISI E PROSPETTIVE DI LOTTA del collettivo Rete Diritti in Casa

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