Avevano detto che la malata era la Cina, ma invece la crisi scoppia in Giappone e si estende in tutto il pianeta. Sperano di risolverla con misure tampone, abbassando ad es. i tassi di interesse, ma non si spiegano perché è scoppiata. Sanno però che l’unico modo per uscirne è aumentare lo sfruttamento degli operai e riuscire ad annientare i capitali concorrenti.
Tutti narravano che il grande malato fosse la Cina, alle prese con il blocco delle costruzioni di case dopo un susseguirsi spaventoso di fallimenti dei principali operatori immobiliari avvenuti in questi ultimi 2 anni, e dopo essere stata pesantemente colpita dalle sanzioni protezionistiche europee e americane che ne minano la crescita. Ma poi, invece, il crollo è avvenuto alla Borsa di Tokyo nella seduta di lunedì scorso, 5 agosto 2024. Di quei crolli che, comunque vadano a finire, passano alla storia per intensità (-12,4% in un solo giorno) e il panico che vanno a generare tra i borghesi operanti sui mercati borsistici e non. Come al solito, dietro alla caduta della borsa giapponese, sono poi andate anche le borse di tutta Europa, e poi quella statunitense, con il ruotare della Terra e i suoi fusi orari. Con perdite che hanno oscillato tra il 2 e il 3%, ma che sommandosi a quelle della settimana precedente, lasciavano sui mercati perdite tra il 6 e il 7% in una sola settimana.
Oggi sono tutti a spiegarne le ragioni. E’ tutta colpa del Carry Trade e della paura che serpeggia nei mercati per una prossima recessione negli Usa. La settimana scorsa sono stati pubblicati i dati sulla disoccupazione negli Usa salita dal 4,1 al 4,3%, e la banca centrale giapponese il 31 luglio ha alzato il tasso di interesse allo 0,25% mettendo fine ai tassi negativi e alla politica del denaro a “costo nullo”. Pertanto sarebbe partita la massiccia chiusura delle “rischiose” posizioni degli investitori (azzardano a chiamarli speculatori) che si indebitavano in Giappone e poi compravano, con il capitale preso a prestito, azioni profittevoli in giro per le borse mondiali.
Sarà, ma è certo che i numeri che avrebbero innescato il cataclisma fanno ridere e neanche ci spiegano perché ben altri valori di disoccupazione e saggi di interesse non hanno fatto altre volte crollare le borse, mentre questa volta sì. I tecnicismi potranno accontentare gli speranzosi borghesi che all’inciampo delle borse venga posto immediato rimedio con interventi più accorti da parte delle banche centrali: un anticipo già ad agosto della riduzione del tasso di interesse negli Usa indicato in precedenza per settembre per sostenere il credito a imprese e consumatori, magari anche più incisivo di mezzo punto; un ripensamento della banca del Giappone che dovrebbe quindi lasciare aumentare l’inflazione come nel resto del mondo e per far continuare a speculare le banche (in primis le sue) e i fondi monetari internazionali.
Alla fine quello che durante queste crisi delle borse si teme e si vuole scongiurare è che la giostra del denaro, che si vorrebbe aumentasse attraverso il denaro stesso, venga fermata. Non importa se tutta la liquidità che gira tra i mercati azionari e dei titoli obbligazionari trovi davvero riscontro nella produzione materiale, pur che giri.
Solo che le leggi del capitale sono rigorose e i crolli in borsa stan proprio lì a dimostrare che non è il denaro in sé a fare di esso del capitale, denaro che si valorizzi, ma ciò richiede il “triste passaggio” attraverso la produzione reale delle merci e della valorizzazione che solo in essa avviene. E neanche è sufficiente questo, poiché occorre che oltre alla valorizzazione materiale, questa valorizzazione debba avvenire ad un moderno, sempre in incessante aumento, grado di sfruttamento degli operai. Solo a queste condizioni, allora, si potrà prendere a prestito denaro (anche con il Carry Trade in Giappone), investirlo in una moderna fabbrica (anche sotto forma di azioni), di auto elettriche o schede di pc per l’intelligenza artificiale che sia, e ricavarne una quantità maggiore. Il plusvalore che se ne ricaverà, solo e soltanto a quelle condizioni, “pagherà” sia il profitto industriale che l’interesse sul capitale preso a credito.
Ma se viceversa l’intero marchingegno finanziario creato appositamente perché tutto ciò avvenga, con le “giuste” dimensioni e proporzioni, e proprio per cercare di superare quelli che sono i limiti intrinseci a una produzione sociale con appropriazione privata, ad un certo punto si inceppa, le vere ragioni sono da ricercarsi all’origine, nelle fabbriche. Diventerà allora chiaro a tutti i soggetti di questa Storia, agli operai come ai borghesi, che queste crisi di borsa hanno per gli uni e per gli altri significati diversi. Per i primi la dimostrazione che questo mondo ha fatto il suo tempo, per i secondi che il proprio tempo non è ancora finito solo se riusciranno a rimettere i primi a lavorare per produrre ad un nuovo più intenso sfruttamento, fino alla prossima crisi.
R.P.
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