La Corte d’appello di Taranto ha annullato la sentenza di primo grado del processo “Ambiente svenduto”. È il primo passo per evitare che i vecchi padroni Riva e i loro sodali politici paghino per le morti, le malattie e i danni causati a operai, cittadini e ambiente.
La sezione distaccata di Taranto della Corte d’assise d’appello di Lecce ha annullato la sentenza di primo grado del processo “Ambiente svenduto”, che a maggio 2021 aveva disposto 26 condanne nei confronti di due fratelli Riva (ex proprietari dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto), di alcuni dirigenti della fabbrica e di esponenti politici locali e regionali. I condannati erano accusati di aver permesso che lo stabilimento tarantino inquinasse l’ambiente circostante e, quindi, di aver provocato gravi e irreparabili danni sia alla vita e alla salute degli operai e degli altri lavoratori in fabbrica, dei cittadini tarantini e in particolare di quelli (in gran parte operai) abitanti in prossimità della fabbrica, sia all’ambiente dell’intera città.
SENTENZA ANNULLATA: LE CONSEGUENZE
L’annullamento della sentenza di primo grado cancella completamente le pene già inflitte, alcune, peraltro, erano già andate in prescrizione! Per citare le più rilevanti: 22 anni di reclusione a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola e al defunto dirigente Girolamo Archinà; 21 anni e 6 mesi all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso; 3 anni e 6 mesi per concussione all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola per le pressioni fatte nel 2010 sull’ex direttore generale dell’Agenzia regionale per la prevenzione e la protezione ambientale (Arpa Puglia), Giorgio Assennato, affinché ammorbidisse la sua linea nei confronti dell’acciaieria tarantina, cioè fosse più tollerante riguardo ai livelli massimi delle emissioni inquinanti.
Nelle motivazioni della sentenza di primo grado la Corte d’assise aveva sostenuto che “la gestione disastrosa della fabbrica aveva arrecato un gravissimo pericolo per la incolumità e la salute pubblica”. Una condotta portata avanti per 17 anni grazie alle connivenze politiche, al punto da generare “danni alla vita e alla integrità fisica che, purtroppo, in molti casi si sono concretizzati: dagli omicidi colposi, alla mortalità interna ed esterna per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno”. Tra il 1995 e il 2012, anno del sequestro dell’area a caldo, secondo la sentenza di primo grado spazzata via dalla Corte d’assise d’appello, la politica aziendale era basata esclusivamente su “profitto e produzione ad ogni costo (…), in totale spregio di altri beni e valori costituzionalmente tutelati, come l’ambiente e la salute dei cittadini, nonché la dignità e la sicurezza dei lavoratori”.
Adesso la Corte d’assise d’appello ha annullato la sentenza di primo grado accogliendo le richieste dei difensori di spostare il procedimento penale a Potenza. Lo ha disposto con la seguente motivazione: i giudici tarantini, anche quelli togati e popolari che hanno emesso la sentenza di primo grado, vivendo negli stessi quartieri in cui risiedono numerose vittime che in primo grado avevano ottenuto il risarcimento per i danni causati dallo stabilimento siderurgico, sono da considerare come “parti offese” del disastro ambientale, cioè vittime dello stesso reato che sono stati chiamati a giudicare. In pratica gli stessi difensori degli incriminati hanno ammesso che si è verificato un disastro ambientale, ma hanno utilizzato un cavillo procedurale per evitare il carcere ai propri clienti!
IL RUOLO ISTITUZIONALE DELLA MAGISTRATURA PENALE
Nei processi in cui gli operai sono parte lesa, come appunto “Ambiente svenduto”, la magistratura penale svolge in pieno il suo ruolo istituzionale: da un lato garantisce sempre, nei fatti, una scappatoia agli esponenti della classe borghese che rappresenta e di cui è chiamata a difendere gli interessi, dall’altro trascura e danneggia volutamente le rivendicazioni degli operai, che, peraltro, se occupano una strada, è pronta a condannare pesantemente: la sentenza della Corte d’assise d’appello di Taranto lo dimostra ancora una volta, in maniera più che esauriente. Assolvendo, consapevole e compiacente, gli esponenti borghesi di turno sul banco degli imputati, assolve il sistema economico, sociale e politico capitalista che questi rappresentano, lo ripulisce e lo riproduce. E, non a caso, la magistratura penale adotta (quasi) sempre lo stesso metodo: in una cornice di tempi lunghi, lunghissimi, che prima o poi conducono alla prescrizione di molti reati e alla libertà per i colpevoli, la sentenza di primo grado è spesso sfavorevole agli imputati, per soddisfare, accontentare e placare le richieste di “giustizia” degli operai e di chi, come gli ambientalisti nel processo di Taranto, è oggettivamente vicino alle istanze operaie; dopo, invece, la sentenza d’appello contraddice e annulla quella di primo grado (è vero anche che, a volte, fra le due sentenze, accade il contrario); infine la Cassazione, per i reati ancora non andati in prescrizione, annuncia a tempo debito la prescrizione e il “liberi tutti” o fa cadere le accuse, per vizio di forma o perché il fatto non sussiste, oppure derubrica gli omicidi volontari in omicidi colposi, che poi vengono a loro volta annullati o ricondotti a fattori esterni e depenalizzati.
È attraverso questo percorso collaudato che in Italia si sono dipanati e conclusi innumerevoli processi senza carcere per i colpevoli o addirittura senza colpevoli. Esemplare, in tal senso, è stato il processo Eternit a carico di Stephan Schmidheiny, proprietario degli stabilimenti di Casale Monferrato, Rubiera, Cavagnolo, Napoli Bagnoli e Siracusa, dove centinaia di operai sono morti per malattie legate alla presenza di amianto, condannato e poi assolto e prescritto più e più volte!
VERGOGNA? NON BASTA INDIGNARSI
Contro la sentenza della Corte d’assise d’appello di Taranto si è subito levato un coro di “vergogna” all’indirizzo dei magistrati ossequiosi. Ma, oltre la condanna morale, nulla di più. Totalmente assente un giudizio politico sul ruolo istituzionale sociale della magistratura, e di quella penale in particolare. Completamente mancante un’analisi su chi più di altri ha pagato con la vita e la salute l’irrefrenabile corsa al profitto dei Riva, cioè gli operai; vivace e prolisso, invece, il solito piagnisteo interclassista. Ma non c’è da meravigliarsi! Facciamo solo qualche esempio. Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, cianfruglia di “errore giudiziario catastrofico” e si preoccupa che tale errore “colpirà al cuore la fiducia dei tarantini, dei pugliesi e degli italiani in generale sulla possibilità di avere giustizia in casi di questo tipo”. Per Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil nazionale, e Francesco Brigati, segretario generale Fiom-Cgil di Taranto, non esistono gli operai ma la città: “Lo spostamento del processo è un ulteriore colpo inflitto alla città di Taranto, che ha bisogno di certezze sia sulla prospettiva industriale e ambientale dell’ex Ilva sia sull’aspetto giudiziario rispetto a quanto avvenuto negli anni in cui i Riva hanno abusato di un intero territorio”! E via di questo passo.
Di fronte a tale autentico crimine commesso dalla magistratura penale tarantina non basta indignarsi e dire che è una vergogna. Bisogna uscire fuori dalla commedia delle parti in cui alla fine gli operai sono costretti a recitare/vivere due volte la parte delle vittime: prima quando muoiono o si ammalano, dopo quando vengono ammazzati nuovamente dall’arroganza di chi detiene, oltre alla forza economica e politica, anche quella di costringere il diritto penale in ogni modo agli interessi padronali.
LA STORIA INFAME SI RIPETE
Infatti la storia si sta ripetendo. Adesso la Procura di Taranto contesta i reati di disastro ambientale e inquinamento, oltre che di truffa allo Stato, a un gruppo di otto persone promosso, organizzato e capeggiato da Lucia Morselli, ex amministratrice delegata di Acciaierie d’Italia, e composto da direttori dell’ex Ilva, dirigenti, consulenti e dipendenti che negli anni successivi alla gestione Riva avrebbe nuovamente causato danni all’ambiente, alla salute e anche alle casse dello Stato. Sembra profilarsi una nuova maxi inchiesta “Ambiente svenduto bis” sulla gestione della fabbrica dal 2018 a oggi: anni durante i quali prima la multinazionale ArcelorMittal e dopo Acciaierie d’Italia (con il colosso franco-indiano socio di maggioranza al 62% e Invitalia socio pubblico di minoranza al 38%) avrebbero gestito in modo molto carente la manutenzione della fabbrica, causando così nuove emissioni dannose per i lavoratori e per i cittadini di Taranto. Secondo i pm tarantini i nuovi accusati avrebbero omesso di effettuare le dovute manutenzioni sulle tubazioni della rete di distribuzione del gas-coke presenti nei reparti cokeria e sottoprodotti dell’ex Ilva, omissione che avrebbe generato “una compromissione e un deterioramento significativo dell’aria della città di Taranto determinando un incremento significativo e misurabile delle concentrazioni medie annuali, mensili, giornaliere di benzene registrate dalle centraline di monitoraggio di qualità dell’aria e da quelle interne allo stabilimento”. Inoltre “non avrebbero neppure mantenuto in efficienza gli impianti di pressurizzazione e filtrazione aria a servizio di macchine operatrici e uffici, esponendo così i lavoratori a elevate concentrazioni di sostanze cancerogene, mutagene, teratogene”. Secondo gli inquirenti, avrebbero provocato una serie di carenze tali da causare “disastri, infortuni sul lavoro e malattie professionali”. Carenze gestionali che continuano a esporre “a pericolo la popolazione residente in prossimità dello stabilimento e gli stessi lavoratori”. Tutto già noto, ma i responsabili non pagano mai con il carcere! La storia infame si ripete, fino a quando?
L.R.
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