La Volkswagen va verso la chiusura di alcune fabbriche in Germania. Cadono tutte le illusioni sulla codeterminazione fra padroni e sindacati. Ora i dividendi degli azionisti, con il salto all’elettrico e i nuovi concorrenti, richiedono da 15mila a 30mila teste da tagliare. È necessario da parte operaia un nuovo approccio al problema.
Gli ultimi ritocchi e poi la forca sarà finita. Ci sono voluti anni, ma alla fine pezzo dopo pezzo, accordo dopo accordo tutto è ormai pronto, a quel punto basterà solo metterci dentro il collo di 15.000, forse 30.000, operai tedeschi della Volkswagen (Vw). La prima cifra è stata esplicitamente dichiarata ai primi di settembre, la seconda fatta trapelare ai giornali (e poi subito smentita) tre settimane dopo che evidentemente, nei giorni intercorsi, manager economici e tecnici hanno fatto un gran “lavoro” per stabilire quali e quante teste di operai vanno fatte rotolare.
Mercoledì scorso, 25 settembre, sono iniziati gli incontri tra i “rappresentanti” dei lavoratori e i vertici aziendali. Erano previsti ad ottobre per discutere gli aumenti salariali per il nuovo contratto, ma sono stati anticipati dopo le dichiarazioni sui licenziamenti e la chiusura di due fabbriche delle 6 storiche esistenti in Germania. La pantomima che “codeterminazione tedesca” esige, i rappresentanti eletti dai lavoratori siedono nel Consiglio di amministrazione di Vw insieme ai manager e ai membri del governo locale, è iniziata.
Ma il quadro entro cui tutti dovranno stare è già stato delineato dall’amministratore delegato Oliver Blume, proprio nel comunicato del 2 settembre: «La situazione del marchio Vw è così grave che non si può lasciare che tutto continui come prima. …. il contesto economico è nuovamente peggiorato, soprattutto per il marchio Vw». Per poi chiarire il nocciolo del contendere: «La Germania come sede di produzione sta perdendo terreno in termini di competitività». Facendo intendere che nel taglio di dieci miliardi di euro di costi entro il 2026, già indicato nei mesi precedenti, vi rientra la chiusura sul territorio nazionale di una grande fabbrica di assemblaggio e di un impianto di produzione di componenti giudicati ormai obsoleti.
Si grida allo scandalo nazionale
Ecco allora lo scandalo nazionale, nonché il sobbalzo di tanti sindacalisti del potente sindacato tedesco IG Metall. Immediatamente, a grandi titoli, i giornali riportavano che ciò comportava la rottura di un patto storico stipulato nel lontano 1994 con i sindacati, il quale congelava i licenziamenti fino al 2029. In realtà una notizia falsa perché nel ‘94 non veniva fatto alcun accordo che impedisse a Vw di licenziare i propri dipendenti, in generale e per così tanti anni. Anzi, successivamente a quella data, ci sono state, a ondate successive, riduzioni di personale, sempre con l’obbiettivo di “ridare competitività all’azienda”.
Vero è invece che in ognuno di questi accordi si modificavano orari settimanali, prima riducendoli poi aumentandoli, si dava maggior flessibilità nell’uso e nel numero della forza-lavoro utilizzata in ogni stabilimento, e in questo modo si garantiva al capitale Vw di dare il “competitivo” margine di profitto e far felici tutti gli azionisti, compreso il governo locale della Bassa Sassonia che è secondo azionista dopo la famiglia Porsche. Così come è vero che ogni volta la grande IG Metall scambiava questo utilizzo “alla bisogna” della forza lavoro degli operai tedeschi con la promessa che le fabbriche in Germania non si toccassero, che la produzione di auto esistente sul territorio nazionale fosse salvaguardata, anzi aumentasse. Ecco la vera natura del patto degli ultimi 30 anni, talvolta scritto e talvolta implicito tra sindacati e padroni: più auto prodotte negli storici stabilimenti tedeschi, in meno tempo e con meno operai per ogni auto prodotta, facendo uso di pensionamenti anticipati, incentivi ai licenziamenti volontari e minori tutele per i giovani operai da poco entrati in fabbrica.
Alla conquista dei nuovi mercati asiatici
Nel frattempo il consiglio di amministrazione e gli azionisti di Vw aprivano nuove fabbriche in Cina in collaborazione (Joint Venture al 50%) con la cinese Saic, compravano in Cechia la Skoda, la Seat in Spagna. Con i piedi ben piantatati in Germania e il plusvalore assicurato degli operai tedeschi, andavano alla conquista dei nuovi e promettenti mercati asiatici di Cina, India e dell’Est Europa. Nel 2019 Vw arrivava ad avere, all’apice delle sue vendite con 2 milioni di auto vendute, il 19% del mercato cinese, il più grande al mondo e quasi pari, con i circa 22 milioni di immatricolazioni nel 2023, al mercato europeo (12 milioni) e statunitense (15 milioni) messi assieme. Un processo che Vw intraprese per prima tra i marchi storici dell’automobile nei primi anni novanta – guarda caso proprio quando in Germania stipulava con il sindacato il primo accordo per ridurre orario di lavoro con corrispondente riduzione di salario operaio -, seguita dalla americana GM e dalla giapponese Toyota, poi arrivarono tutti gli altri.
I capitalisti cinesi hanno imparato da loro
Ma anche un processo giunto ormai al termine, poiché in questi 30 anni i capitalisti cinesi non sono stati solo a guardare i concorrenti stranieri prendersi metà del loro mercato, hanno sviluppato la loro industria, sono nati nuovi marchi come la Byd che produce solo elettrico e sono diventati a loro volta dei competitori globali. Fino ad essere negli ultimi anni assolutamente vincenti proprio nei veicoli più moderni, quelli elettrici che in Cina a luglio di quest’anno hanno superato nelle vendite le obsolete autovetture con motori endotermici. Una crescita incredibile se si pensa che in un solo anno, dal maggio 2023 al maggio 2024, le vendite di auto elettriche son passate dal 35% al 50%. E una crescita devastante perché ad esempio sta portando alla chiusura della fabbrica Vw-Saic di Nanchino in cui venivano prodotte 360 mila Passat e Skoda con motore a combustione.
Ecco che allora si arriva al paradosso, quello di marchio di auto, qui la tedesca Volkswagen, che mentre in Cina ferma la produzione di auto con motore a scoppio perché dice che il termico non si vende, dichiarando a Bloomberg News che “tutti gli stabilimenti di Saic Volkswagen operano normalmente in base alle esigenze di mercato e alle nostre previsioni”, in Belgio chiude uno fabbrica dell’Audi che produce solo auto a batteria perché – dice sempre – l’elettrico non si vende. Ma in realtà Vw in Europa ha un tracollo delle vendite delle auto elettriche in quanto sono vendute a cifre quasi doppie delle stesse medesime auto prodotte e vendute in Cina. Tanto che qualcuno adesso azzarda che Vw dopo essere andata in Cina a insegnare deve ora imparare, dai marchi cinesi, come fare a produrre auto elettriche a prezzi accessibili ai suoi operai, ma anche a una buona fetta di piccola borghesia europea.
Nessun futuro radioso solo sacrifici operai
Così, per capirci qualcosa dell’intera vicenda Vw, si deve tornare in Germania da dove tutto sembra essere partito 40 anni fa. Poiché il recente annuncio della chiusura di alcune fabbriche, ripresentandosi come mantra il solito ritornello del “rimanere il grande gruppo competitivo mondiale”, svela tutte le falsità sciorinate in passato su un futuro comune e “radioso” dopo i sacrifici operai. Non solo quei sacrifici operai avevano come unico scopo quello di continuare a far arricchire azionisti e dirigenti, ma il peggioramento delle condizione lavorative e di vita degli operai non ha in realtà fatto altro che porre le basi dell’ulteriore odierna richiesta di chiusura di fabbriche e intensificazione produttiva.
Un ciclo incredibile partito nel lontano 1994 con il primo contratto di questa vicenda che portava alla riduzione dei costi attraverso la riduzione dell’orario di lavoro dalle 35 ore settimanali a 28,8 ore su 4 giorni con corrispondete riduzione dei salari a carico dell’azienda e una parziale integrazione da parte degli enti locali. Va detto che il sindacato riuscì a far passare allora l’accordo tra gli operai soprattutto perché la forza contrattuale precedente aveva portato i tedeschi ad avere la settimana lavorativa più corta in Europa e i salari comunque doppi rispetto ad esempio a quelli dell’analogo operaio Fiat. Si parlò allora che Vw avesse così evitato il licenziamento di 30.000 (deve essere una cifra magica) operai e impiegati tedeschi.
Dodici anni dopo però quel contratto “doveva” essere cambiato nuovamente, nel 2006 Vw tornò a chiedere nuovi tagli dei costi della forza-lavoro. Li ottenne con un contratto che andava in direzione contraria al precedente: aumento e ritorno alla settimana di 35 ore, ma se alla riduzione di ore era corrisposto prima una diminuzione del salario, all’aumento di orario di lavoro questa volta non corrispose alcun aumento salariale.
In pratica alla fine del giochetto durato 12 anni gli operai si sono trovati una decurtazione netta del prezzo della propria forza-lavoro. E sempre nel sacro dogma di salvaguardare la competitività di Vw e i posti di lavoro tedeschi, quella volta, in effetti, Vw si impegnò a mantenere fino al 2011 il numero degli occupati in Germania. In quegli anni va ricordato che non si parlava in alcun modo della svolta delle automobili elettriche. Anzi ci sono stati “grandi manager” alla Marchionne e marchi che non pensarono in alcun modo all’elettrico, perché “non ha futuro”, fino al 2017. Le prime Tesla andarono sul mercato nel 2008 e furono in ogni caso auto di lusso dal costo di 100 mila dollari.
Con l’elettrico si riducono ancora i salari e l’impegno a non licenziare è sparito
Vw comincia a progettare solo successivamente all’accordo del 2011 l’elettrico, il suo primo modello a batteria è del 2013. Nel 2015 scoppia lo scandalo delle false emissioni dei motori diesel e cerca di ripulirsi l’immagine con una serie di modelli elettrici e ibridi a basse emissioni. Ed eccola tornare alla carica con i sindacati, per la solita riduzione dei costi, proprio utilizzando la scusa che l’auto elettrica richiede meno lavoro e quindi meno operai per la loro produzione (ne abbiamo parlato in un articolo del 2019 di questa buffa tesi).
Comunque dalla scadenza del contratto 2006-2011 l’impegno di Vw a non licenziare non c’è più, attua la riduzione della forza-lavoro in Germania su base volontaria, sono gli anni dell’esplosione del mercato e della produzione in Cina. La crisi generale del capitale del 2007 dagli USA arriva in Europa, ma colpisce in misura ridotta il mercato cinese, dove l’intervento dello Stato riesce a mitigarne gli effetti eclatanti. Saic-Vw in Cina passa da 500 mila auto nel 2008 a 1 milione nel 2010, 1 milione e mezzo nel 2013 per arrivare ai 2 milioni nel 2016, una crescita incredibile che si ferma nel 2019, poi di nuovo la crisi nel 2020. Un dato la dice lunga: negli ultimi due anni l’incidenza dei costruttori stranieri sul totale delle immatricolazioni cinesi è scesa dal 53 al 33%.
Ormai, a questo punto, davvero la palla è passata in mano al capitale cinese e ai suoi nuovi marchi, talvolta colossi come Byd che vanno dalla estrazione del litio, necessario per la produzione delle batterie, fino alla produzione e trasporto per il globo terrestre di automobili su navi cargo da 7000 vetture.
Ogni salto tecnologico è usato per i dividendi degli azionisti e pagato duramente dagli operai
Eccola qui in sintesi la storia a cui gli operai tedeschi dovranno mettere la parola fine. Accettare un nuovo giro e farsi mettere ancora una volta la testa nel patibolo da chi ha deciso che, per salvare i propri profitti, altre migliaia di operai devono essere sacrificati, con un sindacato che ce li accompagnerà poiché è il male minore, oppure scrivere un nuovo rivoluzionario capitolo con le proprie mani? Ponendo le basi del riconoscimento di una comune condizione tra operai di diversi paesi sul mercato internazionale, tedeschi, cinesi, italiani, altrimenti messi dai propri padroni uno contro l’altro in continui peggioramenti di condizioni di lavoro.
Perché forse è giunto il momento che gli operai dicano la loro, senza mezzi termini, per dare l’unica vera soluzione al problema. Poiché la soluzione veramente efficace, capace di risolvere una volta per tutte la crisi della produzione industriale di auto (e non solo di auto), non sta nella competitività degli operai moderni e la connessa produttività da aumentare (invero fin troppo alta), non sta nella necessità di eliminare periodicamente operai produttivi, ma sta nella necessità di licenziare manager e azionisti inutili alla produzione, se non che addirittura dannosi (lo scandalo dei diesel insegna). Non eliminare chi le auto le produce ai massimi livelli tecnologicamente possibili, ma chi le auto le utilizza e consuma senza averle prodotte, a partire proprio dai padroni (principali azionisti) e a scendere giù giù, fino a tutti quelli che a vario titolo in questa società, senza metterci una goccia di sudore, possono comprarsi nuove auto elettriche (o addirittura di lusso) che costano ormai cifre che gli operai occidentali con il loro misero salario non possono più permettersi, nonostante abbiano e continuino a buttar via la loro vita per produrle.
R.P.
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