Nei ricordi di un’operaia della Borletti, poi Magneti Marelli di Corbetta, le modifiche dei processi produttivi sul “modello giapponese” che promettevano “zero infortuni, zero morti” ma che si rivelarono un sistema per intensificare lo sfruttamento di operaie ed operai. Sono cambiati i suonatori ma la musica è la stessa.
L’esplosione della settimana scorsa, alla fabbrica di carrelli elevatori, alla Toyota di Bologna che ha ucciso Fabio e Lorenzo, 2 giovani operai, e feritone 11 di cui uno grave, ha ricordato alcune situazioni della mia vita lavorativa alla Borletti di Milano, poi Magneti Marelli di Corbetta.
Anche alla Marelli un operaio perse la vita in un “infortunio” in magazzino. Erano gli anni ‘90, e (a proposito di Toyota) l’azienda di proprietà della Fiat annunciò il passaggio a un organizzazione del lavoro, sul “modello giapponese”, che in quegli anni veniva propagandato come il più sicuro: “zero infortuni, zero morti” e “modo di produzione” che a parole prometteva migliorie agli operai, rendendoli meno dipendenti dalla pesantezza e ripetitività dalla catena di montaggio, o “nastro trasportatore”, come si chiamava in Borletti. Più piccolo della catena tradizionale, perché non vi si assemblavano autoveicoli, ma strumentazioni di bordo: contachilometri, orologi, contagiri, trasmettitore di pressione, ecc. ecc.
L’azienda faceva grande uso di “ristrutturazioni” e “riorganizzazioni”, i licenziamenti di massa attraverso la cassa integrazione e 4 soldi d’incentivo, erano affiancati da un peggioramento delle condizioni per chi restava.
Il “modello giapponese” per come l’abbiamo conosciuto, non era altro che un tentativo di coinvolgere gli operai, nel realizzare gli obiettivi dell’azienda, mettendo da parte la contrapposizione d’interessi antagonistici tra padroni e operai, che voleva dire, accantonare la via maestra di una risoluta lotta contro lo sfruttamento.
Dal punto di vista strettamente produttivo, il “modello giapponese” si concretizzò (solo parzialmente rispetto le aspettative dell’azienda) in 2 filoni.
Uno si può riassumere in una versione più “tirata” dell’originale “Tempi e metodi”, velocizzandone la tempistica, a più riprese di volta in volta con “nuovi” o pseudo “metodi” che andavano dal TMC al Just-in time, presentati come innovativi, “convenienti” anche per le operaie.
Il secondo filone più del primo, non rappresentò niente di nuovo. Si trattava delle produzioni quantitativamente limitate rispetto la grande tiratura di altri modelli. Già in Borletti poi Marelli, l’azienda allestiva un organizzazione del lavoro, parallela e alternativa al nastro trasportatore.
Erano le “Isole di lavoro”; “I fuori linea”; le “G” line (assemblaggio disposto su tavoli di lavoro messi a forma di “G”; stesso discorso per la linea a “U”.
Questi modi di organizzare il lavoro erano già presenti in fabbrica. Ciò che fu inserito, in nome del modello giapponese, fu che in ogni “squadra” (gruppo di lavoro”) veniva nominata la Team leader. Operaia tra le operaie che da un giorno all’altro ricevuta l’investitura dall’azienda, diventava il riferimento della propria squadra, con il compito di evitare o limitare al massimo i “fermi linea” produttivi. Nel giro di poco tempo, l’azienda promosse le Team leder dal terzo al quarto livello del CCNL.
La novità veramente surreale che naufragò in poco tempo, fu la pretesa dell’azienda, di fare riunioni non pagate con i capi, dopo l’orario di lavoro. Riunioni che avrebbero dovuto trovare soluzioni migliorative, o affrontare intoppi che si creavano nel gruppo di lavoro.
Un aspetto che si può definire ridicolo, (ma non per gli operai che lo dovevano attuare) era ogni volta che l’azienda annunciava l’arrivo in fabbrica di una delegazione di giapponesi in carne e ossa. Agli operai della logistica e del magazzino centrale, toccava un gran da fare per spostare e sistemare il magazzino (cassoni, fornitura sugli scaffali, merci in uscita, fornitura per la produzione, semilavorati, ogni cosa insomma) come ai giapponesi piaceva trovarlo. Salvo poi rimettere tutto come prima, appena la delegazione se ne andava.
Il tentativo di far pensare (e agire) gli operai con la testa del padrone, ovviamente non attecchì. Ma un sindacalismo collaborativo che si dichiarò “non contrario a priori al metodo giapponese”, non contrastò seriamente ciò che ne derivò: aumento di ritmi e carichi di lavoro, salari bassi, e menomale che i turni si fermarono ai soliti 3, non si parlava ancora di 20 turni, come successe poco tempo dopo in alcune fabbriche Fiat.
Queste brevi considerazioni forse sono inutili. O forse possono servire alle giovani operaie e operai, a essere sempre guardinghi, ogni volta che l’azienda propone o vuole imporci, mansioni, più mansioni nello stesso tempo, “nuove organizzazioni del lavoro”, soprattutto quando dice di farlo nel nostro interesse. Occorre fare squadra con le compagne/i di lavoro nel dire NO, quando c’è di mezzo la nostra incolumità, messa a repentaglio da un antinfortunistica solo sulla carta e da una logorante produttività, a prescindere dal “modello”.
A.L. Ex operaia Borletti/Marelli.