EX ILVA, FINIRÀ COME NEL 2018?

Facciano le trattative che vogliono, cambino a piacimento proprietà e azionisti: gli operai non si toccano, nessun licenziamento né mascherato, né incentivato, altro che “sfoltire l’organico in modo indolore” proposto da quattro sindacalisti venduti. Abbiamo già dato nel 2018.
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Facciano le trattative che vogliono, cambino a piacimento proprietà e azionisti: gli operai non si toccano, nessun licenziamento né mascherato, né incentivato, altro che “sfoltire l’organico in modo indolore” proposto da quattro sindacalisti venduti. Abbiamo già dato nel 2018.

Paura. Ansia. Preoccupazione. Paura e rabbia. Paura che a essa subentri la disperazione. Rabbia per essere costretti ogni giorno a vivere nella paura. Perché alla paura di perdere il lavoro in fabbrica, unica fonte di reddito per sfamare una famiglia, e di piombare, da un momento all’altro, nella miseria più nera, non ci si abitua, anche dopo anni. Sono i drammatici sentimenti che animano i giorni e le notti di tanti operai: non c’è operaio che prima o poi, per un più o meno lungo tempo, non li abbia vissuti. Sono i duri pensieri che agitano, anche e particolarmente, gli operai dell’ex Ilva, a Taranto, Cornigliano e altrove. Con la privatizzazione di Acciaierie d’Italia alle porte cresce il timore di nuovi tagli occupazionali: tutti sanno che chi è rimasto fuori nel 2018, con l’ingresso di ArcelorMittal, al di là delle reiterate promesse, non è mai rientrato.
Questa è la condizione attuale, in particolare, dell’operaio tarantino, esemplare al massimo livello della condizione di ogni altro operaio di qualsiasi altra fabbrica: odiare il proprio lavoro, del quale farebbe volentieri a meno, e nello stesso tempo temere di perderlo. Ogni operaio costretto a entrare nell’immenso antro nero dello stabilimento siderurgico tarantino apprende e conosce perfettamente l’alienazione estrema del lavoro salariato, sa bene che non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale e che ogni giorno mortifica e rovina il suo corpo e il suo spirito. Ogni operaio ripete a se stesso che sa come entra in fabbrica, ma non sa se, alla fine del turno, uscirà vivo o morto, sano o ammalato, integro o ferito, o a pezzi. E l’alienazione e il rischio che nascono dalla condizione di schiavitù sotto il dominio del capitale diventano tanto più disperati quanto più l’operaio si costringe ad accettarli, rassegnato, piuttosto che perdere l’unica forma disponibile di sostentamento per sé e la propria famiglia.
A questo si riduce la moderna “civiltà” tecnologicamente avanzata, che sotto la maschera dell’efficienza e dell’opulenza nasconde l’insopportabilità della schiavitù operaia. Chi sorregge la vita gaudente e ignobile di tanti che si spartiscono immani fette di profitto sono le spalle curve di migliaia e milioni di operai. Conta nulla perciò il solerte impegno di politici, sindacalisti, economisti e giornalisti che si arrampicano sugli specchi per dimostrare i vantaggi della prossima privatizzazione di Acciaierie d’Italia, dopo l’abbandono di ArcelorMittal. Governo e sindacati, con tutti i loro prezzolati sostenitori, si stanno affannando a gestire una situazione i cui effetti collaterali non riguarderanno nessuno di essi. Come nessun politico e sindacalista di mestiere mai ha indossato la tuta in spogliatoi ridotti a latrine e pieni di formiche e altri insetti o è andato a sgobbare a temperature asfissianti, con i filtri dei condizionatori pieni di polvere (questa è parte della realtà dello stabilimento siderurgico tarantino), così domani nessuno di essi perderà i privilegi di cui si nutre e gode.
Dall’inizio di gennaio è partita rutilante la sceneggiata di cui da mesi si avvertivano gli echi. Sembra la stessa manfrina vissuta nel 2018, che portò all’acquisizione dell’ex Ilva da parte della multinazionale ArcelorMittal. Che accadde allora? ArcelorMittal vinse la gara ma non assunse tutti gli oltre 13.000 dipendenti in organico, ne volle solo 10.000 e governo M5S-Lega e sindacati (Fiom, Fim, Uilm e Usb) trattarono per arrivare a 10.700, accettando i licenziamenti di fatto. I circa 2500 non assunti dalla multinazionale, in gran parte operai, restarono infatti in Ilva in amministrazione straordinaria in cassa integrazione: di essi circa 1000 sono andati via con l’incentivo (100.000 euro lordi) e 1600 non sono più rientrati.
Adesso, a poche settimane dall’arrivo di dieci offerte, da parte di multinazionali italiane ed estere dell’acciaio, per l’acquisizione totale o parziale di Acciaierie d’Italia, si stanno creando tutte le condizioni perché vada a finire esattamente come nel 2018, oppure peggio, con licenziamenti immediati o a breve scadenza. I sindacalisti di Fiom, Fim, Uilm e Usb, inguaribili zerbini sui quali politici e padroni puliscono gli scarponi con cui schiacciano gli operai, si stanno già affrettando a chiedere un nuovo incentivo all’esodo, contando su un centinaio di milioni che sarebbero avanzati dal vecchio budget, e la riapertura della valvola di sfogo delle pensioni per amianto, che però erano state chiuse nel 2003. Detto con parole loro, i sindacati sperano che “combinando incentivi e pensioni si possa ridurre un po’ la platea degli addetti ex Ilva e quindi avere una gestione meno traumatica dei mesi futuri. Un modo indolore per sfoltire l’organico”. Sperano che si risolva in questo modo il “nodo occupazione”, per non trovarsi a gestire la rabbia di centinaia o migliaia di operai subito licenziati. Così, invece di cominciare a organizzare gli operai alla lotta per non perdere il posto di lavoro e per migliorare le condizioni di lavoro in fabbrica, iniziano a invocare tavoli di confronto, a lanciare proposte fumose come la presenza dello Stato italiano nel capitale della futura società, a sollevare polvere per tenere buoni gli operai. I quali, però, già nelle assemblee di fabbrica sul rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici, dopo la rottura delle trattative, hanno espresso paura e sfiducia per un futuro senza certezze. E hanno cominciato a chiedere che non finisca come nel 2018.
L.R.

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