Due giorni dopo che la fabbrica gli si è sbriciolata sulla testa, una cinquantina di operai sono stati trovati, ancora vivi, in un anfratto sotto tonnellate di macerie di cemento e metallo al terzo piano dell’edificio crollato alla periferia di Dacca, in Bangladesh.
E mentre soccorritori e vigili del fuoco lavoravano alacremente, scavando tunnel tra i detriti per strapparli vivi alla sorte toccata ad altri trecento lavoratori tessili, migliaia di manifestanti si scagliavano contro la polizia, che si è difesa con pallottole di gomma e lacrimogeni, invocando la pena di morte per i responsabili del disastro – il peggiore nella storia dell’industria tessile del Bangladesh – e prendevano d’assalto altre «fabbriche della vergogna» del Paese.
LOW COST – La catastrofe ha risollevato le polemiche sull’industria dell’abbigliamento del Bangladesh che esporta in tutto il mondo grazie alla produzione low-cost. Il numero impressionante di morti (304, destinate a crescere), gli oltre mille feriti, le centinaia di persone ancora intrappolate in quello che resta del Rana Plaza, l’edificio di otto piani venuto giù come un castello di sabbia, dopo giorni di scricchiolii, crepe che si aprivano nei muri e ispezioni mal fatte, ha indignato il mondo intero.
I MARCHI COINVOLTI – Nel Rana Plaza si producevano, tra gli altri marchi, vestiti per Mango, per l’inglese Primark, per l’italiana Yes-Zee. Sul loro sito web le aziende che producono abiti 24 ore su 24, elencano tra i propri clienti noti brand tra cuiWal Mart, C&A, Kik (già noti per l’incendio nella fabbrica Tazreen, dove sono morti in novembre 112 lavoratori; e, per quanto riguarda la tedesca KIK, per l’incendio della pakistana Ali Enterprises, dove quasi 300 lavoratori sono morti lo scorso settembre), oltre a Gap e l’italiana Benetton, che però ha negato il proprio coinvolgimento con un comunicato stampa ufficiale. I marchi della moda che portano la produzione in paesi, dove il costo del lavoro è infinitamente inferiore, la tassazione favorevole, i governi compiacenti, si trovano con le spalle al muro.
ALLARMI IGNORATI – Nell’edificio lavoravano tremila operai, soprattutto donne. I sopravvissuti raccontano che i proprietari delle cinque fabbriche collocate all’interno del palazzo crollato, avevano ignorato gli allarmi lanciati proprio dagli operai, che denunciavano delle crepe sospette, e avevano costretto i loro dipendenti a lavorare nonostante il pericolo. Li avevano ricattati («altrimenti non vi paghiamo»), dice AsiaNews. Il 23 aprile, il giorno prima del crollo, alcuni ispettori avevano dichiarato il palazzo inagibile e pericolante.
I SALARI PIÙ BASSI AL MONDO – «L’industria paga i salari più bassi al mondo, ma non ha la decenza di assicurare la sicurezza di chi lavora per vestire mezzo mondo”, ha detto Brad Adams, direttore per la sezione asiatica dell’organizzazioneHuman Rights Watch. La paga mensile di un operaio è di circa 28 euro e l’industria tessile impiega 3 milioni di persone, in maggioranza donne. L’organizzazione accusa il ministero del Lavoro di Dacca di non fare controlli nelle fabbriche. «Non possiamo continuare ad assistere a un tale sacrificio di vite umane dovuto alla totale irresponsabilità di un sistema produttivo basato sulla competizione al ribasso» – affermaDeborah Lucchetti, referente della Campagna Abiti Puliti (la sezione italiana della Clean Clothes Campaign). Ma il tempo dell’azzardo sembra volgere al termine.
ACCORDO – Le multinazionali che lavorano nel Paese e che si spartiscono un mercato che vale 20 miliardi di dollari, potrebbero finalmente vedersi costrette a sedere attorno a un tavolo con i rappresentanti dei lavoratori per trovare un accordo che migliori le condizioni di lavoro e di vita degli «schiavi» della moda. Nel 2011 era stato rigettato un piano presentato da sindacati e governo che disciplinava ispezioni, controlli tecnici, e la possibilità di ordinare la chiusura per le fabbriche non in regola. I costi derivanti dall’accordo, allora, erano stati ritenuti eccessivi. «Finanziariamente non sostenibili», avevano detto i responsabili di WalMartall’Associated Press. «Clausole troppo vincolanti ed eccessiva esposizione al rischio di procedimenti legali», aveva sostenutoGap. «Ci devono pensare gli imprenditori e il governo locale», aveva rincarato H&M.
RISARCIMENTI – Oggi le organizzazioni ci riprovano con il Bangladesh fire and building safety agreement, «un programma di azione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza», spiegano gli attivisti della Campagna abiti puliti. Accordo già sottoscritto lo scorso anno dalla società statunitense PVH Corp(proprietaria di Calvin Klein e Tommy Hilfiger) e dal distributore tedesco Tchibo, che ha appena prodotto un importante risultato: a Ginevra è stato approvato uno schema di risarcimento di alcuni milioni di euro per le vittime di Tazreem, il 45% a carico delle imprese, il resto a carico del governo e dei proprietari delle imprese. Tra i marchi coinvolti, anche l’italianaPiazza Italia, che ha accettato di versare al fondo una quota del denaro che servirà a risarcire le famiglie delle vittime rimaste senza reddito e supporto e le cure ai feriti.
Antonella De Gregorio
Un vero schifo, non solo per quello che è successo ma anche perchè a questa notizia sono stati dedicati solo qualche accenno nei telegiornali! Per il capitale questi sono “incidenti di percorso”, le vita dipersone non contano, servono a produrre profitto. Se sipensa che sulla pelle di questi poveretti si acqisiscono immense ricchezze! non basta chiedere uno sfruttamento più giusto, bisogna lottare per una società senza il profitto e senza il lavoro salariato!