Redazione di Operai Contro,
vi invio un articolo dal blog di Savelli
Gli esuberi di Natuzzi, la manodopera cinese e i 52 centesimi al minuto
Per un lavoratore italiano messo in mobilità dalla Natuzzi ne esisterebbe almeno un altro (qualcuno ipotizza abbia gli occhi a mandorla) armato di ago e filo ad imbottire divani nei sottoscala del distretto murgiano, quadrante sud-est dell’Italia, incuneato tra le regioni Puglia e Basilicata.
Non sarebbe un’equazione peregrina, almeno a sentire i vertici del gruppo Natuzzi, marchio storico del made in Italy, quartier generale a Santeramo del Colle (provincia di Bari), stabilimenti produttivi disseminati un po’ ovunque nelle Murgie tra Matera, Ginosa e Laterza (Taranto) e un tempo autentico distretto del divano (imbottito) con fornitori e committenti sparsi ad ogni angolo del globo (si pensi al colosso Ikea).
Pasquale Natuzzi, 73 anni, presidente e fondatore di un gruppo quotato a New York (a suggerire la tentata vocazione internazionale ed esterofila dell’azienda) dice alla Nuvola del Lavoro che il piano di riorganizzazione che prevede 1.726 esuberi in Italia sia stato pensato per “salvaguardare oltre 3 mila addetti – tra dipendenti diretti ed indotto – e per nuovi investimenti” che quantifica in 190 milioni di euro (in innovazione di processo, prodotto, marketing e comunicazione).
Denuncia Natuzzi che molto di questo piano lacrime e sangue sia da ascrivere a una concorrenza sleale che arriva da una serie di piccole imprese che assoldano manodopera a bassissimo costo che contabilizza in circa 2 mila cinesi solo nel murgiano, i quali producono fodere e rivestimenti per divani senza alcuna tutela e spesso persino senza contratto, alimentando un sottobosco di lavoro nero ed evasione che rasenta il dumping (produrre a un costo più basso di quello di produzione).
Così per sopravvivere non ci sarebbe altra soluzione se non quella di collocare in mobilità (termine giuslavoristico per dire licenziamento) 1.725 lavoratori, la gran parte in cassa integrazione a zero ore (700 euro di reddito mensile) e che a metà ottobre si vedranno privi di qualunque forma di ammortizzatore sociale.
Di tutt’altro avviso sono le principali sigle sindacali del settore, che parlano all’unisono di sconcerto, disapprovazione e definiscono persino “vergognoso” (la Cisl) questo piano di riorganizzazione.
Denuncia alla Nuvola Walter Schiavella, segretario generale Fillea Cgil, “la politica assolutamente irresponsabile di Natuzzi”, che avrebbe ”buttato al vento anni di ammortizzatori sociali, cioè di sacrifici dello stato per sostenere i redditi dei lavoratori, senza riuscire a tirare fuori un credibile piano industriale per rilanciare un brand famoso ed apprezzato in tutto il mondo”.
Tuttavia va registrato come Natuzzi abbia all’estero circa 3.200 dipendenti nei suoi tre stabilimenti in Romania (1.327), Cina (1.583) e Brasile (circa 300) più altri 300 attivi negli oltre mille punti vendita in tutto il mondo. E non sfugge quanto si muova in un contesto totalmente internazionale e su mercati emergenti, dove spesso il costo del lavoro è infinitamente più basso.
Pasquale Natuzzi spiega in realtà che l’obiettivo di questo piano è di quasi dimezzarlo anche in Italia arrivando a produrre a 52 centesimi al minuto rispetto all’euro attuale, una soglia – questa – evidentemente inaccettabile per restare sul mercato.
E aggiunge che questo piano “non prevede alcuna delocalizzazione all’estero, né alcun trasferimento di produzione, ma s’ispira a criteri di innovazione di processo e di prodotto per puntare all’alto di gamma e lasciare il basso di gamma negli stabilimenti vicini ai mercati in cui le aspettative della clientela e il potere di acquisto sono infinitamente minori”.
Si avvia così verso l’esito peggiore questa vertenza infinita che si protrae da almeno dieci anni e chiama in causa – per l’ennesima volta – il tema delle politiche industriali del nostro Paese. Al netto delle parti in causa anche questa vicenda è il perfetto teorema delle occasioni perse, tra accordi di programma (con la sinergia di regioni e ministeri) da centinaia di milioni di euro dissipati nel sostentare la forza-lavoro in uscita senza tentare una riconversione professionale.
E consacra definitivamente le Murgie come un’altra delle aree depresse di Italia nonostante una cultura dell’arredamento quasi secolare e soltanto trent’anni fa una delle poche best practices all’interno della questione meridionale.
twitter@FabioSavelli
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