Redazione di Operai Contro,
Il 23 novembre scorso la tensione è tornata a salire tra Cina e Giappone. Motivo dello scontro sono ancora le isole giapponesi Senkaku di cui la Cina (ma anche Taiwan) rivendica la proprietà nazionale. Nuovo casus belli la “zona di identificazione della difesa aerea” che si estende sull’arcipelago conteso. Qualsiasi aereo che volesse sorvolarlo dovrà fornire un preciso piano di volo, precisare la propria nazionalità e mantenere un contatto radio costante, altrimenti scatterà l’intervento dell’aviazione militare cinese.
Le isole Senkaku (in giapponese) o Diaoyu (in cinese) sono poco più di due scogli. Son state punto di approdo e lavorazione per i pescatori di Taiwan e poi giapponesi, dal 1940 ad oggi sono disabitate. Nel 1969 le isole sono tornate a essere di interesse economico per via di presunti giacimenti di petrolio e gas, che invero si trovano un bel po’ più a Nord.
E’ chiaro che gli avvenimenti degli ultimi mesi travalicano la semplice disputa commerciale o la storica rivendicazione territoriale: essa è divenuta pretesto di scontro in un confronto tra potenze per un egemonia nell’area, che sempre più, da economica, si sposta all’ambito militare.
Da due anni, circa ogni sei mesi, i contendenti si inventano un nuovo motivo di scontro, poi lo lasciano sopire e uscire dalle cronache, per poi tornare nuovamente a soffiare sulle ceneri, come in questi ultimi giorni. Per il momento è stato solo un confronto muscolare a distanza e qualche scaramuccia locale fatta di “pescatori” o esagitati nazionalisti che tentano sbarchi propagandistici, mettono una bandierina sugli scogli e se ne vanno.
Tuttavia nel frattempo sono cresciuti tra le popolazioni i bassi istinti nazionalistici, con tanto di affollate manifestazioni, e soprattutto sono cresciuti gli armamenti. Nel gennaio 2013, proprio con la giustificazione della contesa con la Cina sulle Senkaku, il governo Abe è riuscito a far approvare dal parlamento un aumento delle spese militari per 1,6 miliardi di euro. Da parte cinese è un continuo magnificare i nuovi armamenti di cui si è dotato l’esercito: droni invisibili ai radar, missili balistici, nuovi jet da combattimento, portaerei, ecc. Si guardi solo come esempio questo servizio del settembre 2012 della BBC: http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-china-20484592 . O questo più recente (22/11/2013) sul nuovo drone di fabbricazione cinese: http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-china-25033155
Tutti gli esperti sono pronti ad assicurare che il contenzioso non verrà mai spinto fino al confronto armato diretto tra le due grandi potenze, più ancora che per il coinvolgimento degli Usa come alleato del Giappone, per le ripercussioni economiche sugli interscambi regionali, tra Cina e Giappone stessi. Ci sarebbero, secondo questa ipotesi, così tanti danni reciproci per l’interruzione degli scambi commerciali e di capitali tra i due paesi da suggerire a entrambi i paesi di non spingere fino alle estreme conseguenze le rivendicazioni sulle isole. Secondo questa teoria, in fin dei conti, tutte le guerre moderne non si sarebbero mai dovute essere. D’altra parte la scintilla che le ha iniziate, un banale pretesto come in questo medesimo caso, è sempre, per definizione stessa di pretesto, di irrilevante entità economica.
Figuriamoci se due paesi capitalisti che trovano reciproco vantaggio nello scambiarsi le merci, nello sfruttare le risorse della natura, nel pieno dello sviluppo economico quando i rispettivi capitalisti neanche si fanno concorrenza sulle merci che producono, decidono di interrompere tutto questo “idillio”, che si nutre di sfruttamento operaio, con una guerra. Il problema si pone diversamente nella crisi, nel prolungarsi di questa e nei tentativi disperati dei governi di superarla. E’ in questi momenti che si mettono in moto meccanismi che travalicano la generica competizione tra capitali, o meglio la portano a svolgersi “con altri mezzi”.
Durante uno dei momenti più alti della contesa per le Senkaku, nel settembre 2012, si sono viste manifestazioni in varie città cinesi in cui, sotto gli occhi benevoli della polizia, sono state prese di mira dalla furia violenta auto e concessionari giapponesi.
In quei giorni i giapponesi, turisti o impiegati delle multinazionali, dovevano stare attenti a girare per le vie delle città cinesi. Scene che la storia ci ha abituato a vedere e che ci era stato detto non si sarebbero più ripetute. E che ora si ripresentano con il loro vero significato: nella crisi non solo viene individuato un nemico generico esterno su cui sfogare la rabbia, per il posto di lavoro perso o la bancarotta della propria impresa o bottega, ma questo assume il volto del concorrente estero del proprio padrone che nella mente grezza e distorta del nazionalista è quello che ha causato la crisi.
Intanto i governi accondiscendono alle piazze, strumentalmente aizzate per scaricare il conflitto sociale su un nemico esterno, scaldano i motori della macchina da guerra. Quando la crisi nel suo aggravarsi farà intendere che gli unici margini di profitto che i capitali possono realizzare sono nella produzione militare su commesse statali, anche un pretesto come le Senkaku darà il via definitivo alla guerra.
Roberto
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