MILANO – «Antonio non è mai stato un uomo venale», giura uno dei tecnici della Regione che ha lavorato a stretto contatto con lui negli ultimi anni. «Amava il suo lavoro. Il suo pensiero non erano certo i soldi».
Ma Antonio Rognoni, di soldi, ne guadagnava comunque parecchi. Lo racconta l’audit interno che la stessa giunta Maroni ha commissionato a inizio mandato per far luce sullo stato dei conti delle società regionali e su Infrastrutture Lombarde in particolare. Uno stipendio, quello di Rognoni, «assai vicino a quello del primo presidente di Cassazione» (che è di 304 mila euro, ndr ), il tetto massimo consentito per legge. E poi quella clausola approvata dall’assemblea degli azionisti nel 2010: l’ex direttore generale, finito in carcere giovedì con l’accusa di associazione per delinquere e truffa, riceveva un compenso ulteriore «in virtù degli incarichi professionali di responsabile unico del procedimento e di direzione lavori ricoperti, pari a un massimo dello 0,1 per mille del valore delle opere alle quali l’incarico si riferisce». La clausola dello 0,1 per mille sui lavori. Clausola «incongrua». È il report della Regione a dirlo: «Tale compenso, in quanto contenuto in un atto distinto rispetto all’apposito regolamento interno, non rispetta il dettato del codice dei contratti».
Duro, spigoloso determinato. Il lavoro come una religione. «Un tecnico, uno competente», ripetono nei corridoi del Pirellone e di Palazzo Lombardia (il «Pirellone bis» voluto da Formigoni e costruito, neanche a dirlo, da Infrastrutture Lombarde). Uno che ci credeva davvero. Roberto Formigoni lo scelse, dieci anni fa, per sostituire Claudio Artusi che aveva salutato dopo pochi mesi la neonata holding per approdare in Fiera. Milanese, 54 anni, laurea in Ingegneria al Politecnico. Rognoni cresce professionalmente alla Techint, dove arriva come project manager a fine anni Ottanta e dove rimane sino al 2001 dopo aver scalato le gerarchie interne. Per i tre anni successivi risulta invece amministratore delegato in tre diverse società. La Essepi, ramo energia, la Aster, impianti meccanici, e la Astrim. È in quegli anni che conosce Roberto Formigoni e il suo braccio destro NicolamariaSanese. Rognoni non è mai stato ciellino, assicurano tutti. Nella Regione guidata dal «Celeste» prende comunque a collezionare consulenze e incarichi. Fino al 2004, quando il governatore gli consegna le chiavi del suo impero. Nata l’anno prima, Infrastrutture Lombarde è destinata a diventare il propulsore della macchina di potere formigoniana, il cuore del neo-colbertismo ciellino. Le strade, gli ospedali, persino la Casa dello Studente dell’Aquila. E poi Expo. Un gigante con in pancia undici miliardi d’investimenti.
«Affidabile, infaticabile, insostituibile», ripetono anche oggi in Regione. «Si muoveva in scooter e la mattina presto lo vedevi già in giro per cantieri». «Meriterebbe una medaglia, altro che carcere», ha detto l’altro giorno di lui un ciellino doc come Raffaele Cattaneo, presidente dell’aula del Pirellone. Schivo, un po’ diffidente. Poche interviste, zero mondanità. Passioni? La montagna, lo sci. Il Milan. «Quando non parlava di lavoro, parlava dei tre figli. Il suo orgoglio».
Poi l’addio di Formigoni e l’arrivo di Maroni. E i contrasti con Paolo Besozzi, il manager piazzato dai leghisti per controllare la holding in mano ai ciellini. Fino alle dimissioni. E quel report, che doveva rimanere segreto e che invece ha preso a circolare dal giorno dopo, che racconta di ristoranti di lusso pagati con la carta di credito aziendale, di benefit generosi, di spese fuori controllo. «Ma figuriamoci», ripetono le solite voci «di dentro»: «Mai sentito parlare di macchine o vacanze esclusive. Pensava al lavoro, solo a quello. E anche quando s’è dimesso la sua ossessione erano i cantieri lasciati a metà, non certo i soldi».
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