Caro Operai Contro
ti invio questo articolo preso da “la Rebubblica”
La storia di Kumar, indiano del Punjab, è simile a quella di migliaia di altri immigrati giunti in Italia per rifarsi una vita. Per mesi, a volte anni, lavorano gratis per risarcire il debito contratto con il viaggio. Solo nella provincia di Latina ce ne sono 35mila ma in Italia, secondo la Cgil, sarebbero 100mila. Vivono in condizioni disumane: ricattati, picchiati, succubi dei caporali. Un fenomeno più volte denunciato. Ma dopo lo sdegno, tutto resta immutato. Anzi: si diffonde nel sommerso. Perché il cibo arriva sulle nostre tavole grazie a loro
LATINA – Il sole è appena tramontato e Kumar può tornare a casa. Da 12 ore è chinato sui campi per seminare. Ha le mani sporche di terra e la pelle già cotta dal sole. Per ogni ora passata piegato in due ha guadagnato meno di tre euro. Abita cinque chilometri più in là, vicino al Circeo, in 30 metri quadrati fatiscenti. Che divide con altri ragazzi indiani di etnia sikh come lui. Quanti, non lo dice. È partito dieci anni fa, Kumar. Appena diciottenne ha lasciato il Punjab, regione nel nord-ovest dell’India. Ha salutato i genitori e la giovanissima moglie. Ed è sbarcato dall’altra parte del mondo. Per arrivare in Italia ha dato seimila euro ai trafficanti di uomini. Seimila euro per diventare schiavo. Sfruttato dalle aziende che lo pagano una manciata di euro al giorno, sfruttato da chi gli affitta una casa squallida a un prezzo esagerato.
E la storia di Kumar non è la peggiore che possiamo raccontare. Ci sono altri braccianti indiani nel Lazio che non guadagnano neanche quei pochi euro a giornata. Lavorano gratis per mesi, a volte anni: devono risarcire un debito inventato da chi li usa. Quando il permesso stagionale scade, i loro “padroni” (così li chiamano) pretendono altri soldi. La scusa è che servono per pagare il permesso di soggiorno, che in realtà è gratuito. Se i braccianti non hanno questi soldi – e quasi nessuno li ha – vengono costretti a lavorare senza stipendio. Schiavi in piena regola.
Lo sfruttamento riguarda Latina e altre decine di località italiane. Sono 22 le province in cui si registrano condizioni di paraschiavismo. In tutto 12 regioni, da nord a sud. A dirlo è il rapporto della Flai Cgil sulle agromafie che verrà pubblicato nei prossimi giorni, curato dall’osservatorio Placido Rizzotto. “Nel nostro paese si può azzardare una stima di 100mila braccianti gravamente sfruttati, in cinquemila vivono in condizioni di schiavismo vero e proprio – spiega Francesco Carchedi, docente di Sociologia alla Sapienza di Roma – Sono assoggettati, ricattati, vivono in condizioni igieniche indecenti, spesso vengono ghettizzati. Molti vengono anche picchiati: abbiamo documentato che i caporali hanno una fortissima capacità di intimidazione. E che prendono una percentuale sul lavoro degli immigrati”.
Gli addetti all’agricoltura in Italia sono un milione e 200 mila. Un quarto sono stranieri, dicono i dati di Coldiretti. L’Istat parla del 43 per cento di lavoro sommerso. Dunque i lavoratori a rischio sfruttamento nel nostro paese sono almeno 400mila. Di certo a migliaia restano sui campi anche 12, 14 ore al giorno. Anche per due euro e mezzo l’ora. Tre o quattro, quando va bene. Dovrebbero prenderne 8,60. “È una partita molto ricca – aggiunge Carchedi – un raccolto delle angurie fatto con gli indiani sfruttati, ad esempio, dura 20 giorni e costa 25 euro a giornata per ogni bracciante. Se si trattasse di lavoratori italiani, il raccolto costerebbe almeno 70 euro per ogni lavoratore e durerebbe un mese e mezzo”. Il giro d’affari legato al business delle agromafie, secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 miliardi di euro all’anno. L’evasione contributiva legata solo al caporalato è stimata intorno ai 600 milioni di euro.
ESCLUSIVO: I DATI SUI NUOVI SCHIAVI
I braccianti indiani non arrivano come clandestini. E per raggiungere l’Italia non usano barconi, ma aerei. Alle organizzazioni che trafficano esseri umani danno fino a 8 mila euro. In cambio hanno un biglietto e un permesso di tre mesi per lavorare come stagionali. Per pagare questi viaggi le loro famiglie si indebitano, a volte si indebitano interi villaggi. Arrivati nelle nostre campagne si spezzano la schiena dall’alba al tramonto: in provincia di Latina per raccogliere i prodotti d’eccellenza della zona, come zucchine e angurie.
Vengono ingaggiati da caporali i braccianti immigrati, a Latina come nelle altre zone: all’alba li caricano sui furgoni e li portano a seminare o raccogliere nei campi delle aziende italiane. Dai lavoratori pretendono anche delle personali tasse giornaliere: di solito 5 euro per il trasporto, 3,50 per il panino, 1,5 euro per ogni bottiglia d’acqua consumata.
Ma il caporale è solo l’ultimo anello di questa catena dello sfruttamento. Sopra di lui – nel 90 per cento dei casi un italiano – c’è spesso un faccendiere, un avvocato o un commercialista. Che gestisce il giro delle case, degli affitti e dei permessi di soggiorno. Al di sopra del faccendiere c’è il capo vero e proprio dell’organizzazione, quasi sempre un uomo della malavita locale che si occupa del traffico di uomini.
Nel mezzogiorno 9 lavoratori stranieri su 10 impiegati nella raccolta intensiva non hanno contratti regolari, al centro sono il 50 per cento, il 30 per cento al nord. Oltre il 60 per cento degli stagionali, poi, non ha accesso all’acqua corrente e ai servizi igienici, più di 7 su 10 hanno malattie legate allo sfruttamento. Campania, Puglia e Sicilia le regioni più colpite dal fenomeno. “Al sud abbiamo studiato in particolare le zone di Foggia, Lecce e Brindisi – racconta Carchedi – A Rignano Garganico, in provincia di Foggia, esiste un vero e proprio ghetto, un villaggio di baracche. D’estate ci abitano anche 1500 persone, d’inverno tra le 400 e le 600”. Lavorano per l’industria del pomodoro e la maggior parte sono africani, come sono africani quasi tutti i caporali. Chi vuole lavorare deve rivolgersi a loro.
Le campagne del Piemonte, invece, sono popolate soprattutto da braccianti dell’est Europa. A Saluzzo, in provincia di Cuneo, e a Canelli, provincia di Asti, raccolgono le uve pregiate per produrre spumanti e vini d’eccellenza. Ma anche i tartufi. “I braccianti vengono reclutati in Romania, Bulgaria e Macedonia – spiega ancora Carchedi – e pagati con i salari di quei paesi. Alla fine lo stipendio non supera i 300-400 euro al mese. Non solo. Sia a Saluzzo che a Canelli molti vengono retribuiti con i buoni lavoro da 10 euro. Di cui 7,50 vanno al bracciante, 2,50 all’Inps. Ma invece che farli lavorare per sei ore e mezza, come prevede la legge, l’azienda li fa stare sui campi per 10, 12 ore. Magari li paga per 3 ore, dandogli 30 euro, ma li fa lavorare per 12. Una truffa ai danni dei lavoratori, ma anche dello Stato”. In tutto i braccianti stranieri che lavorano in Piemonte sono tra i 600 e gli 800. “Di questi – sottolinea Carchedi – almeno in 150 sono in condizioni di sfruttamento estremo”. D’estate una parte di loro vive in piccole baraccopoli, fatte con casette di fortuna e tende aperte tra una macchina e l’altra. Il resto abita in container messi a disposizione da Caritas, Comune e Coldiretti.
Anche nella provincia di Latina i braccianti dormono in baracche, qualcuno nelle stesse serre nelle quali lavorano di giorno. Oppure nei templi dove pregano. Altri affittano le case degli italiani a prezzi esagerati. In quegli appartamenti minuscoli dormono anche in 10. Kumar paga 500 euro per 30 metri quadrati. Entriamo anche noi. In casa soffitti neri per l’umidità, fili elettrici scoperti, vecchie reti per dormire, mosche e odore di spezie. Sopra al letto Kumar ha appeso la foto del suo matrimonio. Con l’abito tipico e il turbante rosso in testa.
“I prezzi delle case aumentano in continuazione – spiega Giovanni Gioia, segretario generale della Flai Cgil Latina – E in questa zona chi affitta ai braccianti gonfia anche le bollette”. “Il mio padrone di casa – racconta Kumar – mi ha portato una bolletta della luce da 575 euro. E ha detto: se non la paghi ti sparo”. Eppure, nonostante tutto questo, Kumar non ha mai protestato. E resta convinto che il suo datore di lavoro sia una brava persona. “Perché mi paga”, spiega. E abbassa lo sguardo, gli occhi scuri e stanchi. “Ma sai che dovrebbe pagarti il triplo?”, gli chiediamo. “Non ho alternativa”, risponde con la voce che trema.
Ma non è meglio tornare a casa? Kumar e i suoi amici rispondono che non possono, non hanno i soldi. E che comunque non vogliono rientrare a mani vuote dopo che la famiglia si è indebitata per loro. E poi c’è chi resta perché convinto di dover saldare il debito con il “padrone”.
In ogni caso, nessuno di questi ragazzi ha idea di dove stia andando, quando parte in cerca di fortuna. “Vedono l’Italia come l’America – racconta Giovanni Gioia – ma quando arrivano trovano tutt’altro. Nessuno, però, si ribella. Perché sono un popolo mite, sono persone piene di dignità che amano lavorare. Non bevono perché la loro religione lo vieta e non infastidiscono minimamente la popolazione locale”.
Fermare questo sfruttamento non è semplice. La Flai, insieme agli altri sindacati di categoria di Cisl e Uil, ha presentato una proposta di legge per rendere trasparente il mercato del lavoro in agricoltura e provare così a cambiare le cose. Intanto ci sono i processi: in provincia di Lecce il processo Sabr, che ha portato a 16 arresti: si tratta di 7 imprenditori e di 9 presunti caporali accusati, tra l’altro, di associazione a delinquere finalizzata alla traffico di esseri umani. E poi c’è il processo Dacia, che riguarda la zona di Taranto, dove sono imputate 17 persone. Tra i reati contestati, anche qui, tratta di esseri umani e caporalato, per cui si rischiano fino a otto anni di carcere. In tutto, le persone arrestate o denunciate negli ultimi due anni per caporalato (introdotto nel codice penale solo nel settembre del 2011) sono 360. Ma resta un reato difficile da provare, e non è scontato che si arrivi a una condanna.
Il sole è tramontato. Kumar sta tornando a casa. In sella alla bicicletta, forse, pensa a sua moglie. Ma in Italia non può, non vuole farla venire. Perché? Gli chiediamo. Ci risponde a labbra strette: “Cosa le farei mangiare?”.
Fine.
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