Il giorno dello spegnimento dell’altoforno mi sembrerà di tradire mio padre”. Lorenzo Fusco lavora alla Lucchini di Piombino, la storica acciaieria toscana, da quando era ragazzo. Prima di lui ci lavorava suo padre, arrivato da Napoli e contento di crescere la famiglia in quell’avamposto di classe operaia. Il 23 aprile, però, l’altoforno che rifornisce di linfa il gigantesco stabilimento, lungo più di 7 chilometri, una città accanto alla città, sarà spento. Non c’è più abbastanza produzione, la crisi, che dura dal 2008, non è stata superata e il commissario straordinario, Piero Nardi, ha dietro di sé le banche che reclamano i crediti. Per ora la rete di protezione stesa attorno allo stabilimento si riassume in un “Accordo di programma” impostato due giorni fa al ministero dello Sviluppo economico, alla presenza del viceministro Claudio De Vincenti, e che presuppone una serie di ipotesi. Ma la prospettiva vera, la ripresa della produzione e il lavoro garantito per i 2.000 dipendenti della Lucchini, che diventano circa 4.000 se si considera la Val Cornia tutt’attorno, il cui Pil dipende in larga parte dall’acciaio, ancora non c’è. Lo spegnimento di quell’altoforno rappresenta uno spartiacque. Tra quello che c’era prima e quello che ci sarà dopo. A Sergio Cardellini, delegato della Fim-Cisl, quando gli chiedi che impressione gli fa quell’evento gli si incrina la voce e i 34 anni passati dentro “La Fabbrica”, come è sempre stata chiamata da queste parti, si sentono tutti.
Gli interessi della lobby dell’acciaio – Per il momento, la storia operaia che viene fuori da Piombino non è una storia di recriminazioni. Il sindacato è unito, cosa rara di questi tempi, ed è convinto di aver fatto finora il proprio dovere. Ha mantenuto tutti i posti di lavoro e anche il salario, nonostante ora ci siano i contratti di solidarietà. E l’obiettivo che si è dato è ambizioso: “Vogliamo realizzare l’Accordo Piombino, la solidarietà per tutti, interni e indotto, senza differenza alcuna”. Non sarà facile perché, come notano diversi operai, riuniti qui nella storica sala del Consiglio di fabbrica, a mettere in discussione il futuro di Piombino c’è soprattutto “la lobby dell’acciaio”. Il riferimento è alle imprese italiane, come Duferco, Feralpi o la stessa Marcegaglia, che “sperano nella chiusura per potersi poi prendere i bocconi migliori”. Un progetto, ipotizzato dai sindacati locali, che avrebbe trovato nel governo una sponda di fatto. “Come mai, nota Rinaldi della Fiom, sono cambiati tre governi ma allo Sviluppo economico c’è sempre, come sottosegretario e ora come viceministro Claudio De Vincenti?“. E Piero Nardi, il commissario, era lo stesso che lavorava alla Lucchini prima della privatizzazione da parte di Italsider e che ha come responsabile commercialeGiovanni Bajetta che ricopre un ruolo analogo alla Duferco. Insomma, la tesi prevalente è che ci sia un piano per ridurre la capacità produttiva dell’acciaio italiano e permettere ai produttori più in forma, tutti del Nord, di recuperare quote di mercato.
La crisi della Lucchini ha radici antiche. La storica famiglia dell’acciaio fece un buon affare acquistando gli stabilimenti ex Italsider – oltre a Piombino, Trieste e Lecco – ma agli inizi del Duemila macinava perdite milionarie. La vendita alla russa Severstal, del magnate Alexei Mordashov, completata nel 2005, sembrava la soluzione. Ma la Severstal, nonostante le dimensioni, nel 2008 avviò la dismissione che ha portato all’impasse dello stabilimento toscano. Nel 2010, l’inserto immobiliare del Sole 24 Ore dava la notizia di un clamoroso shopping da parte di Mordashov in Costa Smeralda alla caccia di ville milionarie. “Nessuno, in tutti questi anni – fa notare Cardellini – ha mai controllato Mordashov e la Severstal, nessuno ha fatto una verifica. È normale?”. Non lo è. Anche perché, e veniamo a oggi, controlli e rilievi meticolosi sono stati invece effettuati dal commissario Nardi e dal governo, nei confronti dell’unico acquirente che si è fatto avanti. La Smc del giordano- tunisino Kkaled al Habahbeh che continua a dichiarare di volersi prendere tutto, altoforno compreso, ma a cui vengono contestati scarsi mezzi. Anche per questo il polmone di Piombino sarà spento il 23 ma caricato “in bianco”, cioè con la possibilità di poter essere riavviato in 20 giorni se nel frattempo si materializzerà un nuovo acquirente. Gli operai sperano apertamente “nell’arabo”, come lo chiamano, ma denunciano gli intralci e gli intoppi frapposti finora da governo e commissario. E c’è chi pensa a un esposto alla magistratura proprio contro il commissario Nardi.
Un futuro tra i rottami – Al ministero, lunedì scorso, è stato impostato l’accordo di programma che è basato sull’ipotesi di impiantare un nuovo forno elettrico unitamente alla tecnologia Corex per riprendere la produzione sia pure a livelli ridotti. L’altra ipotesi, sponsorizzata dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, è quella dell’ampliamento del porto – già avviato – per permettere l’attività di refitting , lo smantellamento e il recupero dei rottami di vecchie navi. La seconda speranza, così, è che il rottame della Concordia venga a morire a Piombino. Tutto questo, però, ha bisogno di una “mano pubblica” che finora non si è vista. “Sembrano voler stare tutti alla larga da Piombino”, dice Gabrielli, segretario provinciale della Fiom, “a volte anche gli stessi sindacati nazionali”. E soprattutto Renzi. “Io l’ho votato – dice il delegato della Fiom, Rinaldi –Mi piacerebbe vedere se ha le palle di venire qui e parlare con noi”. Magari prima del 23 aprile.
Da Il Fatto Quotidiano di mercoledì 16 aprile 2014
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