PER IL DIBATTITO
Ricevo e volentieri diffondo un’icastica critica di Paolo Giussani al libro del giovane economista francese Thomas Piketty (ex consigliere della socialista Ségolène Royal),di cui «tutti i sinistri» parlano. Il titolo è ambiguamente pretenzioso: Il Capitale nel ventunesimo secolo (ed. italiana Bompiani), in cui il termine Capitale allude all’opera di Marx.
Che la proposta di Piketty sia una bufala, lo dimostra anche la facilità con la quale la stronca un vecchio reazionario liberale, un po’ fetente, come Oscar Giannino (Tre ragioni per respingere il presunto “capolavoro” di Piketty sul “Capitale”, https://www.leoniblog.it/2014/04/25/tre-ragioni-per-respingere-il-presunto-capolavoro-di-piketty-sul-capitale/).
In poche parole, tanto fumo niente arrosto … alla tavola degli ideologi di M. Le Capital.
D.
C’è Capitale e capitale …
Anche se non c’era in palio nessun premio, ho letto lo stesso il libro di Thomas Piketty, di cui tutti stanno parlando – un grosso investimento cartaceo. In effetti, riconosco che quella di Piketty è un’impresa che ha dell’epico: in 452 pagine riesce a non dire un cazzo!
La sua tesi è che la crescita dell’ineguaglianza è dovuta al fatto che il rendimento del capitale, come lo chiama lui, è superiore al tasso di crescita del Pil. Come rimedio propone l’instaurazione di una tassa progressiva sul reddito a livello mondiale. A parte la puerilità della proposta – e l’apparente ignoranza da parte del suo ideatore che le tasse sono una conseguenza dello sviluppo e non il contrario (come amava dire il vecchio indimenticato Olof Palme, l’agnello capitalistico va tosato non ucciso) e, more importantly, malgrado le diffuse illusioni al proposito, che lo stato non ha mai svolto la funzione di redistributore del reddito – la constatazione che il saggio del profitto è superiore al tasso di variazione del Pil è di una suprema banalità, valida in tutti i paesi e in ogni tempo.
Quindi non può spiegare proprio una sega. L’amico ce l’avrebbe dinanzi agli occhi una spiegazione facile facile e ovvia ovvia: il declino storico dell’accumulazione e la creazione di un gigantesco esercito di riserva mondiale. Ma tale teoria non può andare bene perché non ha nessun uso politico. E si sa che ci vuole una spiegazione politicamente utilizzabile, solo una di questo tipo si presenta come accettabile. (Anche se in realtà i politicanti con le proposte di Piketty come di qualsiasi altra anima bella a livello globale il massimo uso che sentono di poterci fare è quello di pulircisi il…).
Il procedimento degli economisti è che si parte da una certa politica economica posta a priori, e che magari riflette determinati interessi, e su tale base si costruisce una teoria corrispondente. Procedura ideologica perfettamente standard, usata sempre e comunque. Nella società borghese è stata perfezionata ai massimi livelli ed è usata di continuo per qualsiasi cosa, anzi è il modo naturale di pensare (da parte di tutti, si badi bene) della società (anche se ad essere onesti era nata assai prima del capitalismo, ma era applicata male, figuriamo che spesso quelli delle altre epoche perdevano la strada finendo poi con il dire la verità).
La recensione di Thomas Palley (The Accidental Controversialist: Deeper Reflections on Thomas Piketty’s “Capital”, «Monthly Review», 25 aprile 1014, http://www.thomaspalley.com/?p=422#more-422 – ndr) dimentica che anche i keynesiani e postkeynesiani, fra i quali egli si annovera (nella corrente dello structural keynesianism), non offrono nessuna vera spiegazione della crescente ineguaglianza, e men che meno del declino dell’accumulazione che ridicolmente imputano alle politiche economiche sbagliate dei governi, come è asserito anche in questa recensione. Palley, essendo un economista di mestiere ed essendo perciò assillato dal problema del vendere una certa “teoria” nei mercatini natalizi di sinistra, è molto più preoccupato del fatto che Piketty nel suo libro aderisce e applica la teoria neoclassica della distribuzione (a suo tempo screditata dalla critica neoricardiana e neokeynesiana, secondo Palley) che non altro.
SalutI Paolo
PS Per chi fosse interessato qui sotto (Fig.1) ci sono l’andamento del saggio netto del profitto delle corporation non finanziarie (linea tratteggiata) e l’andamento del saggio annuale di variazione del Pil reale (linea continua). Come si vede il saggio del profitto è sempre stato superiore al saggio di variazione del Pil (tranne in due anni nella seconda metà degli anni ‘80) e se avessimo preso il saggio lordo la differenza sarebbe stata assai più grossa. Quello che varia è la differenza fra il saggio del profitto e il saggio di crescita del Pil (Fig.2), che tende a ridursi, fra oscillazioni irregolari, fino agli anni ‘80 e poi a salire. La spiegazione di questo movimento sta nell’andamento della quota di accumulazione (Investimenti/Profitti Netti) che sale fino a metà anni ‘80 e poi scende piuttosto spettacolarmente. La spiegazione di questo andamento a sua volta … beh magari per la prossima volta. Saluti.
Fig.1
Fig.2
Comments Closed