dalla Repubblica
L’incredibile e triste storia del Pd romano, a raccontarla a chi vive per esempio a Gallarate o Ragusa e di Mirko Coratti e Daniele Ozzimo non ha mai sentito parlare, si riduce ad una pozza di reciproci risentimenti, ritorsioni e ricatti fra i per così dire vertici – qui di alto non c’è nulla, solo alcuni conti in banca – del piccolo potere politico locale a cui è sfuggito di mano un poderoso gioco di ruolo. Il cui obiettivo, come in ogni gioco, è quello di conquistare il potere con ogni mezzo. Lecito e illecito, in questo caso. Dell’illecito si occupano con grande solerzia le procure. Ci sono i reati, i guerci e gli infiltrati, gli sprovveduti e i lestofanti. Poi c’è un sistema politico – il campo di gioco – che non è molto diverso da quello di tanti altri luoghi che non sono Roma, un sistema collaudato su base nazionale. Cambiano i nomi, ma le regole sono quelle. Cinque, le regole. Tre i livelli di difficoltà. Vediamoli.
Uno. Si sta sempre con chi vince. Delle famose correnti, cordate, filiere di potere è impossibile ricostruire nel tempo ‘chi sta con chi’. Fare le squadre, insomma. Cambiano secondo la convenienza. Le due grandi famiglie, veltroniani e dalemiani, hanno generato nel tempo bettiniani, marroniani, orfiniani, montiniani, bersaniani (dai nomi dei leader locali di riferimento, a Roma). Ora, per esempio, la maggioranza è renziana, nel senso di orfinian-renziana perché Matteo Orfini, una volta dalemiano, è oggi renziano: da Renzi infatti incaricato di bonificare il partito che assai ben conosce. Due anni fa erano tutti bersaniani, prima bettiniani, o veltroniani. L’impressione – disse e ripete il ministro Marianna Madia, tra le prime a denunciare due anni fa il Pd romano come “associazione a delinquere” – è che le divisioni siano solo di facciata. Ci sono, per carità: controllano pacchetti di iscritti e di voti sul territorio. Ma al momento delle decisioni si riuniscono “in camera di consiglio” e si spartiscono la torta. Tutte le cariche elettive, tutti i centri di spesa. Ti può capitare di vederli uscire, alla vigilia delle elezioni, dalla stessa stanza. Cinque o sei persone, sulla carta correnti rivali ma in realtà pronti a concordare cosa tocca a chi. Una camera di consiglio, per usare un’espressione soave. Si sta con chi conviene, con chi comanda, e al momento di decidere si decide insieme.
Due. Segui i soldi. Follow the money, diceva la gola profonda del Watergate in “Tutti gli uomini del presidente”. E’ molto semplice. Dove ci sono molti soldi e non si sa da dove vengano c’è qualcosa che non va. Pierpaolo Bellu, segretario dello storico circolo San Giovanni, anno di fondazione 1949, oggi 250 iscritti da rinnovare, perché il tesseramento è stato dai commissari azzerato: “No, davvero non lo so quando è cominciato tutto. Io ti direi che è sempre stato così. Ma lo sapevano tutti: quando in un quartiere c’è un candidato che invita a cena al ristorante cento persone, paga lui, e un altro che porta la pasta fredda da casa nel cortile del circolo. Quando uno mette cinquemila manifesti e un altro cinquecento. Quando all’improvviso da un circolo che non fa attività compaiono 200 tesserati”. Le cene, i manifesti, le tessere nei circoli fantasma. I paesi dove vota più gente di quanti siano i vivi. Una tessera su cinque è falsa, hanno detto i commissari. 16 mila nel 2013. 9 mila nel 2014. “Anche Marco Miccoli, quando era segretario cittadino, poteva indagare, volendo”. Miccoli ora è parlamentare. Non c’era bisogno di Barca, insomma. Volendo.
L’ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA E REPUBBLICA+
Comments Closed