Redazione di Operai Contro,.
vi invio due articoli della Stampa.
Sono la testimonianza delle conseguenze del razzismo del governo, del nazionalismo dei padroni e della propaganda piccolo borghese
Il governo del Pd del gangster Renzi alimenta il razzismo contro gli emigranti
Ora Renzi si prepara tranquillamente a bombardare i libici
Solo nel 2015 sono stati 4000 gli emigranti assassinati nel mediterraneo
Ai padroni vanno bene gli operai stranieri sottopagati
La piccola borghesia che è sempre vissuta dell’elargizione dei padroni, fatte sulle spalle degli operai. Oggi che la crisi li immiserisce, trovano i responsabili: gli emigranti
Gli operai devono imparare a lottare anche contro il razzismo del governo, il nazionalismo dei padroni e la propaganda della piccola borghesia
Un Operaio di Torino
niccolò zancan
inviato a Verona
«È morto un negro. Siiiiiiii. Un merda in meno. Alti i bicchieri!». Chi scrive una frase così su Facebook? Chi c’è dietro? Che storia è questa? «Mi chiamo Cristian C. Ho 31 anni. Non è un buon momento per me. Ho dei problemi famigliari. Faccio l’operaio in un’industria meccanica, sono uno qualunque. Voglio dire, non sono uno che si veste bene, come puoi vedere. Ma non volevo fare casino. Sabato pomeriggio sono tornato a casa stanco e ho scritto la prima cagata che mi è venuta in mente». È una frase razzista. «Non mi offendo. Dite pure quello che volete. Tante cose non vengono prese in considerazione, e allora ti va giù la catena». Cosa significa? «Vuole dire che delle persone di colore mi sono entrate in casa e mi hanno portato via tutto. Se ti entrano in casa, se spaccano, se invadono la tua vita, tu cosa rispondi? Cos’altro c’è capire?».
Sette giorni fa un ragazzo nigeriano di 28 anni si è buttato sotto un treno a Ferrara. Nel giro di pochi minuti, sono incominciati ad arrivare i primi commenti. «Meglio così». «Finalmente una buona notizia!». «Posso unirmi ai festeggiamenti?». «Speriamo non si sia danneggiato il treno». Cristian C. ha scritto due volte. «Ma la mia doveva essere soltanto una roba da ridere. Una cazzata. Hai presente le cose che devono essere prese con le pinzette? Non volevo suscitare un polverone del genere. Infatti, questa è la verità, ho detto al mio amico di cancellare tutto. L’argomento mi ha stressato».
Possiamo scrivere il suo nome? «Se volete fare denunce, andate pure avanti. Ma io preferirei di no. Poi mi toccherebbe spiegare ai miei parenti. E, come le ho detto, questo non è un buon momento in famiglia». Lei e la politica? «Non mi interessa». Ha pensato a quel ragazzo? «Non è bello suicidarsi. Ma finché non ti succede niente nella vita, sei gentile. A me qualcosa è successo».
Il «banglatour»
Ferrara, Emilia. Terra di cultura e accoglienza. Sempre qui, tre giorni fa, i poliziotti sono andati a bussare a casa di un ragazzo di 19 anni. Con altri dodici estremisti di Forza Nuova, da Roma e Chieti, partecipava ai cosiddetti «banglatour». Raid punitivi contro migranti bengalesi. Un gruppo accomunato dal «propugnare sia le tesi negazioniste dell’Olocausto, sia quelle della superiorità della razza bianca», c’è scritto nel decreto di perquisizione.
Questo viaggio è una specie di incubo reale. Un viaggio nella rabbia e nell’insofferenza italiana. Dove puoi imbatterti in una studentessa di 25 anni, laureata in Lettere antiche con 110 e lode, che ti dice: «Io sono fascista».
Fascista? «Assolutamente sì, non ho problemi ad usare questa parola». Ha lunghi capelli biondi e un maglione girocollo rosso. Si chiama Martina Poli. Dei 15 militanti di Casapound a Verona, lei è la più giovane.
I diritti umani
Davanti a un caffè macchiato, in un bar di fronte all’università, ti racconta la sua vita: «Mio padre è dottore di paese, mia madre casalinga. Io sono una secchiona. Studio tantissimo. Ho fatto la tesi sull’Eneide, forse il libro che preferisco in assoluto. Sogno di restare in ambito universitario, magari nella ricerca». Il suo punto di vista sull’attualità è: «Stiamo implodendo. Il modello di integrazione che vogliono propinarci è del tutto fallimentare. I fatti di Colonia ne sono la prova. La società multirazziale non può esistere. I migranti sono pedine nelle mani delle cooperative che li sfruttano, nessuno si integra veramente. Si creano solo dei ghetti. L’Italia sta morendo. Il diritto di base di un popolo sarebbe vivere in pace nella sua terra. Io credo che questa migrazione sia una violazione dei diritti umani».
Ha mai parlato con un migrante? «Personalmente, no. Sarà perché in biblioteca non li vedo, sono sempre dal kebabbaro con la birra in mano». Cosa significa, per lei, definirsi fascista? «Per me è un’idea di Stato. Quella che ha permesso all’Italia di essere una nazione. Io non voglio che i bambini dei migranti abbiano la nostra cittadinanza. La cittadinanza è una questione di diritti e di doveri. Andate in giro, troverete solo odio. E se io mi impegno in politica, è proprio per cercare di convogliare questo sentimento in qualcosa di costruttivo». E quale sarebbe, il suo progetto politico? «L’Italia deve chiudere le frontiere e tornare ad essere una nazione. Il governo deve prendersi cura degli italiani. I profughi che non lavorano, cioè quasi tutti, devono essere immediatamente espulsi».
Panchine anti-migrante
A Verona ci sono le panchine con le sbarre trasversali. Qualcuno le chiama anti barboni, altri le definiscono anti migranti. Le sbarre servono ad impedire a chiunque di sdraiarsi. Quelle panchine sono finite anche nel presepe, quasi come un simbolo della città. Verona è estremamente educata, piena di turisti che parlano lingue straniere. A Verona è nato il movimento «Verona ai veronesi». Il pretesto è stata una manifestazione che si è tenuta a pochi chilometri da qui, nella zona collinare chiamata Costagrande.
Da cinque mesi, in cima a un cocuzzolo, nell’ex collegio di Don Mazzi, c’è un centro per richiedenti asilo politico. È delimitato da reti, chiuso con un grande cancello elettrico. Cinquecento migranti dormono divisi in container da sei posti l’uno. Il paese più vicino è a 4 chilometri, giù da una strada di tornanti, si chiama Avesa. L’idea era quella di usare una sala della «Trattoria popolare» per allestire una scuola di italiano per i migranti. Non è stato possibile. Uno dei promotori delle proteste si chiama Franco Grava. Ha 65 anni, due figli e tre ex mogli. «Quando ti innamori, ti viene la pelle d’oca – dice ridendo forte – ma poi passa». «La prima moglie l’ho conosciuta qui, la seconda a Johannesburg, la terza a Città del Messico. E alla fine, sai cosa ti dico? La prima è sacra. Solo con lei ho fatto dei figli. E io vivo per loro».
Da ragazzo era il cantante di un complesso che si faceva chiamare «i Brutos», il suo cavallo di battaglia era «Guarda che luna» di Fred Buscaglione. Franco Grava è un venditore di detergenti concentrati. Compra le materie prime, le fa assemblare. Cosa ci faceva in prima fila contro i migranti di Costagrande? «In Italia c’è il caos. Questi ammazzano, stuprano. C’è l’invasione. Per trovare un bianco bisogna andare in Africa, fra poco. Oddio, io non ce l’ho con nessuno, ho viaggiato tanto. Ma quando vai all’estero, devi avere tutto in regola, mentre queste persone qua non vogliono nemmeno farsi identificare». I richiedenti asilo politico, veramente, sono stati tutti identificati. «Allora senti, ragazzo, ti faccio io una domanda. Se vengono delle persone a casa tua, tu le lasci entrare? Questi qui chiedono passaggi, tirano pugni sulle auto per farsi caricare su. Fanno quello che vogliono. Sporcano. Non parlano l’italiano». Ma è stato proprio lei, insieme ad altri residenti, ad opporsi alla scuola: «Certo, mica dovevano farla qui…».
Sui social network, in questi giorni, è stata molto commentata una notizia che riguarda la Danimarca. Il governo danese ha deciso di sequestrare i beni dei profughi per fare fronte alle spese di gestione. Qualcuno si è indignato. È una pratica che ricorda ciò che facevano i nazisti ai deportati. Ma da una casa di Milano, la signora Laura S. ha attaccato gli indignati sui social network: «Secondo voi, mantenere milioni di nullafacenti è onorevole?».
Ritratto di un’Italia che brinda al suicidio del “negro”
«Molestata sul bus»
Vive in zona Parco Lambro. Ha 50 anni. Indossa jeans, scarpe da ginnastica Adidas e non si trucca da molto tempo. «Perché il trucco è una schiavitù», dice. Il suo profilo Twitter traccia queste coordinate: «Il politicamente corretto è cancro. No Ue. No euro. No ius sanguinis». Ed eccola, in carne ed ossa: «Sono stufa di sentire frasi del genere: “Poverini, vengono dalla guerra”. Sono stanca delle palle, dei condizionamenti verbali. Non guardo più la televisione». È una libera professionista, si occupa di assistenza clienti per una società che sviluppa software: «L’euro ha dimezzato il mio stipendio. La gente soffre e si ammazza. E intanto, cosa facciamo? Importiamo milioni di migranti che peseranno sulla nostra economia disastrata. Un esercito di maschi giovani disoccupati, molto ben messi fisicamente. Perché stiamo facendo una cosa del genere?».
Quali sono i suoi rapporti con i migranti? «Una cara persona della mia vita è stata ricoverata in ospedale quattro mesi. Andavo a trovarla ogni giorno ma, alle nove di sera, non potevo prendere il pullman per tornare a casa. Sono stata molestata. Senza gravi conseguenze, grazie a dio. Ma io non sono mica Monica Bellucci, non è che la gente si volti a guardarmi quando passo in Piazza del Duomo. Eppure, una volta giravo libera per questa città. Adesso non più». Se le dicono che lei è razzista? «Me ne frego. Mi fa orrore il politicamente corretto. È spossante, è falso».
Sono le sei di una sera italiana. Il vento ha pulito il cielo. E le cose, i contorni di tutte le cose, adesso si vedono nitidamente. La signora che non vuole «l’invasione dei nullafacenti» saluta: «Vado ad accudire tre gatti randagi – dice – vado dal mio uomo, la mia passione, la parte migliore di me. E poi cercherò di aiutare chi ha bisogno, animali o essere umani. Credo sia la cosa più importante da fare nella vita».
Il rischio della “zona grigia”
17/01/2016
maurizio molinari
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