Logiche della paura, razzismo istituzionale e controllo sociale
di MAURILIO PIRONE.
In memoria di Sandrine Bakayoko (1991-2017). Per non dimenticare.
“Per anni questi nomi, con il loro carico di carne e ossa, sono andati lontano dal luogo della loro nascita, via dalla loro casa, componendo un testo scritto, un testo arrivato fino ai confini dell’Occidente. Sono nomi che hanno sfidato frontiere e leggi umane, nomi che disturbano, che interrogano i governanti africani ed europei”
(Dagmawi Yimer per il cortometraggio “Asmat-Nomi”)
L’uccisione a Sesto San Giovanni del presunto attentatore di Berlino, Anis Amri, ha provocato in Italia un repentino cambio di passo nella restrizione delle politiche di accoglienza e nel ripristino di dispositivi di controllo della mobilità migrante.
Se negli ultimi mesi è stata la distinzione fra migrante economico e rifugiato l’ordine del discorso del razzismo istituzionale che ha prodotto livelli differenziali di accoglienza (come ad esempio, l’introduzione degli hotspot), adesso sembrare poter prendere piede una cultura del sospetto generalizzato rispetto al diverso: il migrante come potenziale terrorista. La paura sociale provocata dai recenti attentati di stampo fondamentalista è agita come leva per risignificare il corpo migrante. Ancora una volta, il possesso o meno dei documenti (un criterio puramente formale, burocratico e sempre più restrittivo) diventa il tratto discriminante tra l’inclusione e l’esclusione, l’accettazione e la criminalizzazione.
Il cambio di passo è più che tangibile, ha varcato il livello della pubblica opinione per diventare proposta politica operativa. Così, prima di Capodanno, la Serracchiani scriveva al nuovo ministro degli Interni, Minniti, chiedendo espulsioni più facili per i migranti meno “integrati” in modo da placare il risentimento crescente nella cittadinanza. Ovvero, pensare di evitare il razzismo dandogli ragione nei contenuti e trasformandoli in politiche attive, sconfiggere le destre trasformandosi nella destra. E Minniti a sua volta scriveva una circolare interna ai prefetti a proposito dei controlli anti-terrorismo per l’ultimo dell’anno, annunciando l’intensificazione dei controlli di strada sui migranti con l’obiettivo di mettere di nuovo in moto la macchina delle detenzioni amministrative presso i CIE, quelle carceri etniche che in Italia si è giunti a porre radicalmente in discussione dopo anni di battaglie sociali e violenze subite dai migranti. L’obiettivo è passare dalle 5mila alle 10mila espulsioni, come se fosse il numero e la ferocia dell’esclusione a garantire riparo dalla minaccia degli attentati.
L’accelerazione del processo di risemantizzazione del corpo migrante è, d’altra parte, inserita all’interno di una tendenza di medio periodo su scala europea che rappresenta la reazione dei governi alla cosiddetta estate delle migrazioni, alla crisi della fortezza Europa e del suo regime dei confini ad opera del flusso migratorio lungo la rotta balcanica e della corrispondente mobilitazione transnazionale in suo supporto. Vecchi e nuovi cittadini europei nell’estate del 2015 hanno violato le norme del Regolamento di Dublino e il perimetro della mobilità consentita dando vita a un vero e proprio movimento costituente al quale i governi liberali hanno dapprima risposto con filo spinato e barriere. Alla ri-territorializzazione dei confini all’interno di uno spazio europeo de-territorializzato e diffuso (come dimostra l’accordo Ue/Turchia che esternalizza i respingimenti) ha fatto seguito l’agenda europea per le migrazioni di Junker e i propositi di riforma del diritto d’asilo, di accordi con paesi terzi per i rimpatri, il rafforzamento dell’agenzia Frontex e l’introduzione di nuove strutture come gli hotspot (nuovi dispositivo della logistica migrante all’interno di un circuito differenziale di accoglienza: classificare, dividere, filtrare i migranti secondo la divisione rifugiati/economici). Allo stesso tempo, Bruxelles si è espressa più volte per l’ampliamento dei posti all’interno di strutture finalizzate ad ospitare i migranti che non rientrano nelle procedure di asilo, i CIE appunto. Fomentare la sensazione di un pericolo sociale e descrivere i migranti come un “problema” di cui farsi carico e disfarsi serve a giustificare la restrizione delle libertà, a rendere accettabile la manipolazione del corpo migrante a qualsiasi costo, o meglio senza curarsi dei costi e delle condizioni di vita dentro le strutture di accoglienza. Cona ce lo dimostra tragicamente. È incredibile se non tragico che in Italia si torni a paventare la possibilità di un CIE in ogni regione. La paura serve a rimuovere il perché, fin dalla loro istituzione, i centri di espulsione si siano dimostrati inutili sotto tutti i punti di vista, ma abbiano prodotto violenza e abusi sui migranti, business per le cooperative, retorica per i politicanti del razzismo. I CIE sono fabbriche di marginalità e degradazione umana.
Da tempo è chiaro che ormai il corpo dei migranti è diventato merce di scambio. Lo dimostra il rifiuto del cosiddetto gruppo di Visegrad di accettare un sistema obbligatorio di quote sui ricollocamenti, lo dimostra il referendum indetto da Orban in Ungheria contro le politiche migratorie imposte dalla UE, lo dimostra la Brexit del Regno Unito giocata in larga parte sulla retorica dell’invasione di migranti comunitaria, lo dimostra l’accordo UE/Turchia, lo dimostra lo scontro Stato/comuni sull’accoglienza in cambio di deroghe al fiscal compact. La “minaccia” migrante è buona, di volta in volta, per contrattare rapporti di forza, privilegi e flessibilità rispetto alla UE o per preservare la coesione interna di paesi in difficoltà agitando lo spettro del nemico esterno.
Eppure, se andiamo a vedere i numeri reali, la situazione è ben altra rispetto alla paventata invasione. Come riportato da Agi, “In base ai dati Istat, risulta che il numero totale di immigrati in Italia è in costante diminuzione, -27% negli ultimi cinque anni: dai 386 mila del 2011 ai 280 mila del 2015. Il saldo migratorio nel nostro paese, cioè la differenza tra immigrati ed emigrati, è ancora positivo ma va riducendosi sempre di più”; quella che è cambiata è la composizione migrante, con una progressiva sostituzione degli arrivi via terra con quelli via mare: meno migranti in cerca di lavoro e più richieste di protezione asilo. Questo in virtù anche degli effetti della crisi economica sul nostro paese (meno appetibile di un tempo) e dello sviluppo di alcuni conflitti la cui responsabilità ricade in buona parte anche sulle politiche estere adottate dagli Stati UE (vedi il caso Siria). D’altro canto è chiaro che ormai non è possibile trasferirsi in Europa da alcuni paesi se non tramite motivazioni umanitarie, a causa della progressiva restrizione di altre vie di accesso. Allo stesso tempo, la UE e i singoli Stati si accingono a firmare accordi con paesi terzi per i rimpatri con regimi dittatoriali o con paesi che versano in un permanente stato di guerra (come l’Afghanistan). L’obiettivo è quello di restringere sempre di più i canali di accesso (giuridici e materiali) in modo da trasformare l’arrivo legale praticamente impossibile. Estendere la ricattabilità del corpo migrante e con esso la sua docilità, la sua strumentalizzazione politica ed economica. Non è un caso che proprio l’Isis usi nei suoi video di propaganda le immagini della violenza poliziesca sui migranti in arrivo per convincerli a preferire Daesh. Che immagine di sé l’Europa produce al di fuori dei suoi confini se invece di accogliere si rivela sempre più amica dei carcerieri e carceriere a sua volta?
Più si restringono i canali ufficiali di mobilità, più aumentano quelli illegali. Non è un’opinione, è un fatto. E la produzione di illegalità non è un effetto collaterale ma un processo pienamente integrato nel meccanismo di gestione della mobilità migrante. Di più, come dimostrano le recenti dichiarazioni della Serracchiani e di Minniti, la diffusione di una percezione di pericolo sociale è funzionale alla trasformazione delle politiche di accoglienza e al ripristino di dispositivi di controllo. Il corpo migrante non è più solamente illegale, è pericoloso. Il razzismo assume il volto della paura e si trasforma in ordine del discorso dominante. Il PD parla lo stesso linguaggio della Lega, sebbene con toni e parole più contenute rispetto alle urla sguaiate di un Salvini. Eppure i contenuti sono gli stessi: aumentare il ruolo discrezionale di questori e prefetti, ripristinare i CIE, aumentare le espulsioni, sostituire alla decisione politica la procedura amministrativa. Ed è così che si dà ragione a chi fomenta la guerra fra poveri, si polarizza il disagio sociale nella forma del razzismo, si prova a contenere gli effetti sociali delle politiche di rigore e liberalizzazione degli ultimi anni.
Il corpo migrante quindi diventa anche un capro espiatorio, utile a silenziare invece qualsiasi discorso critico sulle cause del terrorismo e sugli effetti della gestione della crisi. Montello, Gorino non sono casi isolati, non sono effetti collaterali; sono il prodotto compiuto del razzismo istituzionale, delle politiche di respingimento e criminalizzazione dei migranti. O saremo in grado di sviluppare l’idea di un nuovo patto sociale fra vecchi e nuovi cittadini europei, un patto che crei nuovo welfare, nuova cittadinanza, nuove istituzioni, oppure quelli che sembrano essere solo episodi di cronaca, momenti di frustrazione, marginali atti di inciviltà, diventeranno la tragica normalità.
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