Redazione di Operai Contro,
La discussione sul protezionismo si è indiscutibilmente accesa da quando Trump è diventato presidente degli Stati Uniti. Le sue dichiarazioni in ambito economico hanno mobilitato i sostenitori del libero commercio. Quanti punti di pil valgono le chiusure delle frontiere, si chiedono gli economisti? I protezionisti di Trump sosterranno che è il modo per affrontare la perdita dei posti di lavoro negli Stati Uniti, i libero-scambisti che ciò provocherà danni gravi per i consumatori e in generale alla economia.
Comunque sia in questi anni, e Trump si occupava solo di golf, il commercio mondiale ha subito un vero e proprio tracollo. Ne sanno qualcosa le grandi compagnie di trasporto merci e la cantieristica mercantile. Mai le frontiere sono state così aperte, gli uomini non possono attraversarle, ma per le altre merci è stato un ripetuto firmare trattati di libero scambio. Le ragioni della crisi hanno frantumato lo stesso le iperboli prospettate sul futuro economico e il commercio internazionale.
Ma se nel dibattito accademico il contrasto di opinioni si svolge in punta di penna, non altrettanto pacifici, possiamo immaginare, saranno i sentimenti dei capitalisti coinvolti che, di fronte alla già evidente erosione dei propri margini di profitto e ai cali di consumi che la crisi inasprisce, si vedano alle proprie merci improvvisamente preclusi interi mercati.
Quando i cinguettii di Trump prenderanno forma e i dazi doganali promessi saranno realtà, appesantendo o bloccando le vendite delle merci importate, quali saranno le ripercussioni per le fabbriche cinesi? E a quel punto i capitalisti cinesi se ne staranno tranquilli contando le perdite o chiederanno vendetta e interventi ai politici cinesi?
Un articolo del Corriereconomia del 30 gennaio analizzando lo stato dell’economia cinese fa capire come una chiusura delle frontiere americane getterebbe la produzione manifatturiera cinese nel caos. Il quadro che emerge è di una Cina che non si è affatto affrancata dalla crisi. Nonostante tutti i sostegni ai consumi interni ad opera dello Stato, e la svalutazione dello yuan che rende più a buon mercato le merci cinesi nel mondo. Una situazione che potrebbe produrre una ulteriore crisi del sistema creditizio, affacciatasi nel 2016, ma non del tutto scongiurata.
Possiamo solo immaginare lo scenario se anche le esportazioni cinesi negli Usa venissero appesantite dagli interventi protezionistici di Trump. Quali ripercussioni si avrebbero se “c’è un solo dato in crescita nei conti commerciali della Cina: l’export verso gli Usa”?
Riferendosi al 2016 il Corriere riporta: “La crescente dipendenza della manifattura cinese dal mercato Usa è evidente anche nel peso dell’interscambio: 6 punti percentuali in più, dal 19 per cento fino a quasi il 25 per cento. Dunque, sono stati la crescita economica Usa ed il dollaro forte (+7% sullo yuan nel 2016) i fattori strutturali che hanno tenuto a galla l’industria del Dragone”.
Nel 2017, se a causa del protezionismo di Trump l’industria cinese non stesse più “a galla”, le scaramucce della guerra economica finora condotta, è certo, lasceranno spazio a ben altre iniziative da parte dei capitalisti cinesi.
R.P.
corriereconomia-2016-01-30
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