L’Europa con le sue istituzioni economiche e politiche sono messe sotto accusa dai rappresentanti politici della piccola borghesia italiana di Lega e Movimento 5 stelle.
La crisi rimescola le carte delle certezze economiche della borghesia. E un tarlo si è insinuato nelle menti della piccola borghesia italiana immiserita: che sia tutta colpa dei politici precedenti e della loro gestione dello Stato, ovviamente, ma soprattutto, a braccetto di quella malgestione, dell’Europa. L’Europa dei poteri forti e della finanza che impongono regole capestro alla nazione italiana, l’Europa in cui altre nazioni più forti dettano all’Italia leggi a loro vantaggio, l’Europa dei burocrati di Bruxelles che con i suoi rigidi trattati pone dei vincoli su deficit e percentuali sul pil dei debiti pubblici che obbligano a fare continue manovre di risanamento.
Prima della crisi, la piccola e media borghesia del Nord, industrialotti della provincia, non dubitavano che gli accordi del grande capitale italiano con quelli francesi e tedeschi gli avrebbero portato solo vantaggi, un incremento degli affari sul mercato unificato europeo. La moneta unica tolto il fastidio dei cambi lira/marco, lira/franco, ecc. Un bel mercato europeo unificato in cui piazzare le proprie merci con profitto a prezzi in euro, ma conservando il vantaggio di pagare ai propri operai salari italiani, più bassi storicamente della media europea.
Il confronto internazionale con i grandi blocchi economici, con gli Stati Uniti, con la Cina, stava certamente più nei pensieri di grandi banche e multinazionali europee, che nelle menti del provincialotto lombardo-veneto. Ma è pur vero che potersi affacciare su quei mercati con alle spalle la Bce e l’euro era tutta un’altra cosa, ed è stato un gran vantaggio. Inoltre se il grande capitale industriale europeo, italiano o tedesco giocava alla pari con quello americano nel mondo, inevitabilmente, avrebbe poi richiesto ai suoi piccoli e medi industriali le forniture necessarie alle sue grandi fabbriche.
Questo prima della crisi del 2008, quando piccola, media e grande borghesia italiana suonavano all’unisono. Le note discordanti erano poche, i contrasti con l’Europa limitati alle trattative sugli aiuti a singoli settori, come quello dei produttori di latte.
Dopo il 2008 il quadro è cambiato drasticamente. Da una parte l’inasprirsi della concorrenza tra i grandi blocchi capitalistici non ha potuto che rafforzare tra le grandi borghesie europee l’idea di unificazione politica ed economica. Dall’altra la crisi ha frantumato nei paesi più deboli come l’Italia persino i legami produttivi tra grande capitale e piccola-media industria fornitrice. Non parliamo poi della disintegrazione avvenuta nel circuito della distribuzione delle merci, dove è solo il grande capitale ormai a dettare le sue regole, e dove le merci attraverso la sola sua organizzazione logistica possono passare direttamente dal produttore al consumatore senza ulteriori intermediazioni.
Nulla pertanto è oggi più facile che addossare le colpe del proprio fallimento economico di piccoli e medi produttori-distributori, che invero sta nei fatti dello stesso sviluppo del capitale, ai grandi gestori della ricchezza accumulata e del progetto politico europeo. È facile addossare tutte le colpe ai “guardiani” del credito in Europa, dare la colpa alla grande finanza, specie se la si può collocare lontana da casa, dalla propria miserrima provincia, dalla banca in cui si conosce personalmente il direttore e con lui si concorda direttamente la linea di credito alla propria fabbricchetta.
Peccato che in Europa, la borghesia di Francia e Germania, ricorda alla nostra che è troppo facile ora, dopo avere utilizzato quando ha fatto comodo il carrozzone comune di Bruxelles, non pagare il biglietto. Non è stato forse proprio la Bce che grazie ai suoi interventi ha salvato dal fallimento mezzo sistema bancario italiano dal 2013? Non è forse ancora la Bce con il suo Pspp (http://argomenti.ilsole24ore.com/parolechiave/pspp.php) che mensilmente dal 2015 acquista titoli del debito pubblico, ma anche corporate bond, immettendo liquidità nel circuito del credito italiano, e sostenendo un mercato delle obbligazioni che altrimenti finirebbe a rotoli? Il sole 24 ore di questi giorni, di fronte alle massicce vendite sui mercati di titoli di Stato, è un continuo di dimostrazioni di quanto costa l’aumenta dello spread (http://argomenti.ilsole24ore.com/parolechiave/spread.php) sui titoli di Stato in termini di maggiori interessi alle banche italiane, alle aziende e persino ai mutui e da questi al mercato edilizio, ecc, ecc.
R.P.
PsPP
Con l’acronimo Pspp (Public sector purchase programme) si intende il piano di acquisti di titoli pubblici avviato dalla Banca centrale europea dal mese di marzo del 2015, prorogato al momento fino a settembre 2018. È una misura di politica monetaria non convenzionale, più nota con il termine Quantitative easing (Qe), attraverso la quale l’istituto centrale dell’Eurozona immette liquidità sul mercato nel tentativo di scongiurare il rischio deflazione e rilanciare la crescita.
Spread
Il termine (in italiano tradotto letteralmente significa “differenziale”) indica la differenza tra due rendimenti di titoli. Dal 2011 è molto usato con riferimento ai tassi dei titoli di Stato. In particolare quelli del BTp decennale e del Bund (sempre decennale). Qui è la differenza tra il tasso d’interesse pagato dai titoli di Stato italiani (i BTp) e quelli tedeschi (i Bund, l’investimento sicuro per eccellenza). Più il titolo di Stato italiano viene percepito dagli investitori rischioso, più è costretto ad offrire tassi d’interesse elevati per attrarre acquirenti. Di conseguenza lo spread con i Bund, in termini di punti base, si amplia.
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