È bene che gli operai conoscano le motivazioni per le quali la Cassazione ha ritenuto di “cassare” la sentenza del tribunale di Napoli che intimava il reintegro dei cinque operai della FCA Fiat. Ha in sostanza ritenuto legittimo il licenziamento.
Il fatto che portò al licenziamento degli operai è nella testa dei giudici ancora circondato da una fitta nebbia prodotta probabilmente da un preconcetto: la messinscena che gli operai rappresentarono pubblicamente non fu ciò che i giudici vogliono vedervi. Per essi l’impiccagione del fantoccio del padrone ha suscitato nel loro immaginario qualcosa di terribile, l’esecuzione di parte operaia di una condanna a morte. Non è assolutamente così, gli operai misero in scena come protesta il suicidio del padrone, inventarono un testamento di pentimento e un funerale. Che è tutt’altra cosa, ma la corte non ha voluto scendere a questa finezza interpretativa dello spettacolo. Con l’undicesimo motivo di ricorso l’azienda “deduce vizio di motivazione (nella sentenza di reintegro del tribunale di Napoli) avendo la Corte distrettuale ritenuto inscenato un “suicidio” piuttosto che un omicidio senza motivare alcunché al riguardo e nonostante la rappresentazione evocasse maggiormente l’esecuzione di una sentenza capitale …” e la Cassazione non solo accetta come data questa interpretazione ma la usa e ripete “la rappresentazione scenica, considerata in tutti i suoi elementi (il patibolo, il manichino impiccato con la foto dell’amministratore delegato, lo scritto affisso al palo a mo’di testamento , le tute macchiate di vernice rossa a mo’ di sangue)” ha esorbitato dai limiti della continenza formale…” Ora perché l’Alta Corte non ha avuto interesse a chiarire il contenuto reale della scena della protesta? Una scelta strumentale perché deve sostenere che nella messinscena è stato superato il limite del diritto di critica “occorre dunque” scrivono nella sentenza “verificare se la condotta tenuta dai lavoratori abbia rappresentato legittimo esercizio del diritto di critica ovvero abbia (oppure abbia) esorbitato dai limiti della continenza”. Lasciare nel dubbio il fatto che il signor amministratore delegato sia stato impiccato sul patibolo o si sia suicidato è ampiamente funzionale. Siccome il diritto di satira non deve recare pregiudizio all’onore, alla reputazione, e al decoro di chi ne è oggetto, l’impiccagione dell’amministrazione per mano dei suoi operai predispone molto più a riconoscere che è stato recato un grave pregiudizio. Nella sentenza non vi sono dubbi “la rappresentanza scenica ha esorbitato dai limiti della continenza formale attribuendo all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli”. Un più attento osservatore poteva scoprire che nel suicidio di Marchionne, nel suo rimorso di fronte ai suoi dipendenti che si erano dati la morte per disperazione, vi era scenicamente una rivalutazione di una sua qualche umanità. Ma per i giudici dell’alta corte è scattato un antico riflesso condizionato, il padrone, colui che dà il benessere ai suoi dipendenti, non può essere rappresentato appeso suicida o impiccato ad un patibolo, non si può attribuire al suo operato nessuna responsabilità nel suicidio dei suoi operai. Soprattutto questa rappresentazione scenica non può essere montata e rappresentata dai suoi stessi operai. Fossero attori in una satira televisiva sarebbero ben sopportati, nessuna censura.
“Le modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori hanno quindi travalicato i limiti del rispetto della democratica convivenza civile mediante offese gratuite…” prosegue la sentenza e qui il signor Marchionne deve veramente mandare un mazzo di fiori alla suprema corte. Questi cinque maleducati operai lo hanno offeso senza ragione, dopo essere stati trasferiti in un reparto confino, dopo aver visto il suicidio vero, per la disperazione vera, di diversi compagni di lavoro, si sono permessi di inscenare una protesta offendendo – sostiene la corte – gratuitamente il datore di lavoro per eccellenza, il padrone Fiat. La suprema corte va oltre, ricorda che “l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali incontra dei limiti nella correttezza formale…ove tali limiti siano superati” e noi dobbiamo adeguarci con attenzione a questi limiti. Questi limiti sono superati “con l’attribuzione all’impresa datoriale o ad suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli”, non si può dire che i dirigenti si arricchiscono sfruttando gli operai, “di riferimenti volgari ed infamanti”, non si può dire che risparmiando sui costi della sicurezza ti mandano a morire, “e di deformazioni tali da suscitare disprezzo e il dileggio”. Non si potrà più scrivere che mentre il padrone fa la bella vita noi scendiamo sempre più nella scala sociale, non potremmo più propagandare fra gli operai stessi che il padrone è un peso sociale che va superato. Cosa è rimasto del diritto di critica degli operai subalterni? Niente. Qualunque critica al proprio “datore di lavoro” può entrare in conflitto con la tutela della persona umana e cioè dell’umano padrone, ogni critica ai rappresentanti dell’impresa può ritenersi fondata su “riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare disprezzo e dileggio” e ciò, come per i cinque operai di Pomigliano “può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi e oggettivi costituiti della fattispecie penale della diffamazione”. Non c’è nemmeno più bisogno di prove documentali sulla diffamazione ma solo il giudizio insindacabile di un giudice che sotto la pressione di un potente padrone decide che le critiche degli operai sorpassano i limiti della continenza formale. Per quale motivo il limite è stato superato la sentenza non lo spiega, lo dichiara come un dato di fatto. I giudici della suprema corte hanno deciso la causa non sul significato oggettivo della protesta dei cinque, sulla differenza fra rappresentare un suicidio o una condanna a morte tramite impiccagione, ma semplicemente sulla inviolabilità dell’immagine del manager industriale, sbeffeggiare l’immagine del padrone è peggio che sbeffeggiare un’icona religiosa. In questo senso la sentenza è ideologica e politica. Ideologica perché la suprema corte usa la legge per costringere la lotta che gli operai fanno comunque ai padroni in un imbuto dal quale può uscire solo un balbettio pieno di rispetto servile. In questa operazione è chiaro ai nostri occhi che l’autonomia della magistratura a questi livelli è una mistificazione, ciò che viene garantita è una classe sociale, i manager industriali, e più in generale i ricchi dalle eventuali turbolenze dei poveri. Non difendono questo o quell’amministratore delegato ma tutta la loro congrega, in questo agiscono per ideologia non per valutazione di fatti concreti, per questo vedono in ogni critica dei subalterni al capo azienda un superamento del “limite della continenza formale”. Una sentenza politica nel senso che è funzionale ad un braccio di ferro in atto oggi fra Marchionne e gli operai che hanno protestato contro la sua gestione della Fiat. Il famoso superamento dei limiti della correttezza formale introduce “in azienda una conflittualità che trascende dal regolare svolgimento e la fisiologica dialettica del rapporto di lavoro”. La corte suprema si prende la responsabilità di stabilire nel rapporto fra operaio e padrone ciò che è regolare dialettica e ciò che trascende da essa. Non solo è finita la libertà di critica col bavaglio ma è anche finita l’attività sindacale come mezzo per il lavoro subordinato di difendersi. Lo sciopero, il blocco della produzione è regolare dialettica o trascende da essa? La corte suprema è sulla strada buona per rendere attività sindacale e scioperi strumenti morti ed inoffensivi. Nell’interesse, non del padrone ma della persona umana perché come ben si può leggere nella sentenza, il diritto di critica non può ledere la tutela della persona umana. Solo che i cinque operai di Pomigliano non protestavano contro Marchionne come essere umano ma in quanto amministratore delegato della FCA-Fiat e ne criticavano l’operato in quanto tale, ma per l’alta corte era più congeniale trasformare tutto in un’offesa all’essere umano, in un semplice contrasto fra satira e tutela della persona. Si è trattato invece di un atto di protesta operaia che la sentenza tenta di sotterrare definitivamente, ma non sarà cosi. La lotta fra operai e padroni non dipende dalla corte di cassazione, dalle sue sentenze ma dalle basi economiche che la produce. Quello che è più chiaro dopo questa vicenda è che l’organo supremo di giustizia non è al di sopra delle parti, sta con le classi superiori e ne difende gli interessi sociali. Le sentenze contro gli operai, non si rispettano come se fossero pronunciamenti divini, si criticano e si avversano con ogni mezzo.
E.A.
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