Braccianti africani che escono di corsa da furgoni scassati e scappano a nascondersi coprendosi il volto, caporali fermati e interrogati, irruzioni di poliziotti nei campi di pomodoro e sotto i tendoni di uva da tavola. In provincia di Foggia è in atto la messinscena architettata dal ministro dell’Interno Salvini per dimostrare all’opinione pubblica l’impegno del governo contro il caporalato e fare propaganda razzista, sempre utile ai fini elettorali, contro i migranti neri che invadono l’Italia. Nello stesso tempo, per alcuni giorni, un coro unanime di ministri e personaggi vari si è levato contro il caporalato.
Pur di sopravvivere, il capitalismo è disposto a tutto, tranne che a negare se stesso. E sopravvivenza per il capitalismo significa continuità dello sfruttamento della forza-lavoro operaia, continuità del furto di plus-valore prodotto dal plus-lavoro non pagato degli operai, continuità di accumulo di profitto da parte dei capitalisti. È per tale ragione che, in alcune condizioni storiche particolari o anche solo in alcuni momenti specifici, il capitalismo assume connotati “ultrademocratici”, a volte persino “rivoluzionari”. Pur di sopravvivere si camuffa, in tutto o in parte, da ciò che non è. Così accade, ad esempio, quando, ogni tanto, il capitalismo lancia la sua “lotta al caporalato” dopo, sempre e solo dopo, qualche episodio di particolare gravità come i due incidenti mortali accaduti nel Foggiano.
Del caporalato in agricoltura, ossia del sistema illegale di intermediazione e reclutamento della forza-lavoro, si sa tutto. Come rileva anche il quotidiano di Confindustria, Il Sole 24 Ore, il 7 agosto u.s., un report della Federazione lavoratori agroindustria Cgil (Flai Cgil) ha stimato che in Italia il business del lavoro irregolare gestito da “caporali” è pari a 4,8 miliardi di euro, con 1,8 miliardi di evasione contributiva. I braccianti (italiani, comunitari ed extracomunitari) soggetti al caporalato sono alcune centinaia di migliaia e coinvolgono decine di migliaia di aziende agricole.
Chiunque percorra a luglio, agosto e settembre la pianura foggiana, anche solo sulle strade principali, potrà osservare con i propri occhi il gran numero di braccianti africani impegnati nella raccolta del pomodoro. Chiunque, alle prime luci dell’alba e nel pomeriggio, si imbatterà certamente in furgoncini adattati al trasporto di braccianti pigiati come sardine. E chiunque conosce bene le condizioni infami in cui quei braccianti sono costretti, per il loro stato di bisogno, a vendere la propria forza-lavoro per pochi euro al giorno.
Tutto ciò è noto a tutti, alle organizzazioni agricole, ai sindacati agricoli, ai preti, ai professori, ai giornalisti, alle “forze dell’ordine”. Ma, in condizioni normali, nessuno muove un dito, nessuno alza la voce, nessuno si indigna, nessuno smuove le coscienze. Tutti tacciono. Vi è, anzi, la diffusa comprensione e accettazione di uno “stato di necessità” per le aziende agricole che le costringe a ricorrere ai caporali per cercare braccianti a basso costo. Uno “stato di necessità” del quale si fa interprete e portavoce lo stesso Sole 24 Ore, presentando le aziende agricole come vittime del prezzo del pomodoro stabilito dalle doppie aste che i grandi acquirenti del pomodoro trasformato (le catene della grande distribuzione organizzata) fanno ad aprile e maggio, quando il pomodoro è ancora in fase di trapianto in campo.
Queste aste funzionano al doppio ribasso e prevedono che le industrie fornitrici del pomodoro trasformato facciano una prima offerta di prezzo di vendita e che quel valore diventi poi la base di riferimento per una seconda asta online dove i partecipanti devono abbassare ancora il prezzo per aggiudicarsi la commessa. Dopo le prime battute d’asta, gli industriali, schiacciati dal più forte potere della grande distribuzione, possono seguire due strade: o rinunciare a vendere a questa oppure rivalersi sugli agricoltori costringendo questi a rivedere al ribasso i prezzi del pomodoro. Le aziende agricole, strangolate dalle più forti industrie di trasformazione, per mantenere i loro margini di profitto non possono fare altro che rivolgersi all’intermediazione illegale di manodopera a basso costo, pena la chiusura delle loro aziende.
Questo è ciò che nel Foggiano tutti sanno e tutti dicono. L’opinione diffusa è la giustificazione del ricorso al caporalato, da parte delle aziende agricole, per ragioni economiche, è la legittimazione dell’impiego di manodopera fornita a basso costo dai caporali, pena la scomparsa dal circuito produttivo agricolo.
In sostanza i capitalisti commerciali impongono la propria forza ai capitalisti industriali, che a loro volta fanno lo stesso con i capitalisti agrari; questi ultimi, per mantenere i propri margini di profitto, hanno bisogno di forza-lavoro facilmente schiavizzabile, disposta ad accettare salari da fame, a piegare la testa senza fiatare: forza-lavoro che i caporali riescono a fornire. Ecco ciò che accade nella lotta di classe fra diversi settori della borghesia per accaparrarsi, ciascuna quanto più possibile, parte del plus-valore prodotto dai braccianti.
Ma questo i trombettieri del capitalismo non lo dicono. Il massimo che fanno (quando, spinti dai fatti, non possono farne a meno) è sparare a zero sul caporalato, presentato come una distorsione del sistema economico, che, a loro dire, in fondo riguarda solo una minoranza di aziende agricole, le più arretrate! Allora invocano l’applicazione della legge 199/2016 sul caporalato (pur sapendo che non vale nulla, fino al giorno prima si sono sperticati a criticare), inneggiano ai contratti sindacali e ai salari giusti. Stabilito che “caporalato = sfruttamento”, tutto ciò che esclude i caporali è un sano e corretto rapporto di lavoro, senza alcun tipo di sfruttamento!!! Salvo, passata la tempesta, riprendere a giustificare le “povere” aziende che sono “costrette”, “loro malgrado”, a fare ricorso ai caporali per comprare gli schiavi per i loro campi.
Il caporalato è invece lo strumento di cui i capitalisti agrari si servono per ottenere, nelle condizioni in cui operano, il massimo sfruttamento possibile di braccianti agricoli e, quindi, appropriarsi, dal plus-valore da essi prodotto, di una fetta di profitto che consenta loro di resistere nello scontro di classe con i più forti capitalisti commerciali e industriali e di “sopravvivere”. Chiarito questo, dire no al caporalato senza mettere in discussione il capitalismo che lo produce e riproduce costantemente è dire niente.
Saluti anticapitalisti
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