Vi chiediamo di aderire (individualmente o collettivamente) e di diffondere questa lettera contro i licenziamenti politici e i ricatti delle aziende contro delegati sindacali, lavoratori e precari in lotta.
Per la libertà di opinione e organizzazione nei posti di lavoro e ovunque.
Per costruire una rete di solidarietà mutualistica a sostegno di delegati e precari che si mobilitano sotto il ricatto aziendale.
Augustin Breda, operaio Electrolux RSU; Riccardo De Angelis, RSU TIM spa; Dante De Angelis, Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza Ferrovie; Gian Paolo Adrian, Rsu operaio Fincantieri.
Sono sempre più frequenti i provvedimenti disciplinari da parte delle aziende contro lavoratori/trici e delegati sindacali che esprimono opinioni pubbliche dentro e fuori i luoghi di lavoro che concernono le condizioni lavorative, le vertenze le ristrutturazioni o sui problemi di sicurezza e appalti.
Diventano più frequenti anche le sentenze con cui la magistratura conferma la legittimità del cosiddetto “obbligo di fedeltà” nei confronti dell’azienda.
L’articolo del codice civile che ne parla è il 2105. Il titolo di questo articolo è infatti proprio “Obbligo di fedeltà”. Il testo dell’articolo però elenca precisamente i casi in cui varrebbe questo obbligo. Infatti, esso così recita: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.
Questo articolo, tante volte richiamato per giustificare licenziamenti individuali di lavoratori, non impone un generico dovere di fedeltà verso il datore di lavoro, ma si limita a stabilire per i lavoratori e le lavoratrici il divieto di concorrenza ed il divieto di divulgazione delle notizie riguardo l’organizzazione dell’impresa. Ossia vieta comportamenti che possono pregiudicare la competitività dell’azienda sul mercato a vantaggio del lavoratore stesso o di una specifica impresa concorrente. Non c’è traccia di limitazione della libertà di opinione né tanto meno di quella sindacale (garantite tra l’altro dalla Costituzione). E’ evidente quindi come la stragrande maggioranza dei licenziamenti che si appellano al presunto “obbligo di fedeltà” siano licenziamenti politici e atti di intimidazione contro chi intendesse mobilitarsi attivamente contro lo strapotere aziendale.
DA PARTE DELLA CASSAZIONE VI E’ STATA QUINDI UNA INGIUSTA E IMMOTIVATA INTERPRETAZIONE ESTENSIVA DI QUESTA NORMA CHE AUSPICHIAMO SIA AL PIU’ PRESTO SOTTOPOSTA AL GIUDIZIO DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE.
Il metodo del defunto Marchionne, santificato solo poche settimane fa, non ha lasciato solo schemi organizzativi di produzione che “portano a valore” anche i tempi perduti per i bisogni fisiologici, ma la totale supremazia degli interessi del profitto, perfino sul pensiero di chi lavora.
L’OBBIETTIVO SEMBRA ESSERE QUELLO DI STERILIZZARE ANCHE LE CAPACITA’ DI RIFLESSIONE, DI ELABORAZIONE CRITICA DEI MODELLI PRODUTTIVI E FINANCHE LA POSSIBILITA’ DI DISCUSSIONE TRA I LAVORATORI.
L’idea che si esca dalla “crisi”, dando mano libera agli interessi di impresa, è il presupposto per cui tutto deve contribuire agli utili. Tutto, compreso il “welfare”, deve portare profitto alla stessa.
La motivazione che viene anche usata come giusta causa nei provvedimenti disciplinari, è che niente deve disturbare la creazione del profitto, nulla deve nuocere.
Denunciare l’organizzazione del lavoro di una azienda che si ingegna ogni giorno per strappare quote sempre più marginali di profitto tanto da compromettere la salute dei dipendenti è quindi …lesiva!
Criticare a torto o a ragione le condizioni in cui versano i lavoratori è “denigratorio e lesivo dell’immagine aziendale”, mentre risulta sempre più accettabile che si possa sottopagare un lavoro, non applicare i contratti, appaltare e sub appaltare, non rispettare le leggi su sicurezza igiene negli ambienti di lavoro ecc… Il fine ultimo non è il benessere dei cittadini (come hanno tentato di farci credere per anni con la formuletta profitto=sviluppo=benessere) bensì prima gli utili…altro che prima gli italiani!
Perciò, in questo schema autoritario, un dipendente, in quanto tale non può esprimere la sua opinione se non VUOLE incappare sempre più spesso nella repressione padronale, volta non solo a tacitare la voce stonata CON ATTI SANZIONATORI ma ‘PIEGARE’ E SOTTOMETTERE ANCHE SOTTO IL PROFILO PSICOLOGICO QUALSIASI ESPRESSIONE, PENSIERO O COMPORTAMENTO RITENUTO OSTILE ALLE ASPETTATIVE AZIENDALI.
E’ PARADOSSALE CHE IN TEMA DI LIBERTA’ FONDAMENTALI, QUALI QUELLO DI PENSIERO E DI PAROLA, IL CITTADINO ‘DIPENDENTE’ SIA SOTTOPOSTO A UN REGIME RIDOTTO – BEN OLTRE IL CONTENUTO DELL’ARTICOLO 2105 – RISPETTO AI DIRITTI RICONOSCIUTI ALLA GENERALITA’ DEI CITTADINI.
Viceversa anche quando il tema sono i morti sul lavoro: si può far esprimere liberamente nelle interviste dei TG nazionali un padrone, o un caporale, i quali ci spiegano perché “siano costretti” ad avvalersi di lavoro nero, sottopagato e senza alcuna tutela immediata e posticipata, in quanto altrimenti non avrebbero abbastanza margine per essi stessi, se a parlare e denunciare è il lavoratore allora è leso l’obbligo di fedeltà.
Questa è la sintesi di una dicotomia che si espande in ogni ambito nella società con il principio “prima di tutto i profitti”. Chi come noi invece denuncia da tempo la sottovalutazione delle conseguenze di tale principio, non si RASSEGNA ALLA strage perpetua DEI 13.000 morti sul lavoro in 10 anni, ai disastri ferroviari, ai ponti che cadono, ai tetti delle scuole o delle chiese che crollano MA VUOLE INCIDERE SULLA REALTA’ ANCHE CON LA VOCE CHE ARRIVA DIRETTAMENTE DAI LUOGHI DI LAVORO perché SIAMO PIENAMENTE CONSAPEVOLI E viviamo tutti i giorni questa politica in cui non si investe sulla sicurezza, sul benessere, sulla salute delle persone SE NON dove si possa attendere una remunerazione e UN PROFITTO.
Questa non è una qualsivoglia società civile, ma barbarie!
Per chi come noi ha saggiato la rancorosa reazione padronale per essere riottosi all’obbligo di fedeltà verso i datori di lavoro, ma molto più propensi alla fedeltà verso i nostri colleghi, ai mandati di salvaguardia di diritti, salario, salute e sicurezza che essi ci consegnano in qualità di delegati o attivisti sindacali, è naturale aderire alla campagna contro i licenziamenti di opinione a partire dai 5 operai di Pomigliano che sono solo la punta di iceberg ben più profondo e pericoloso, innanzitutto per la democrazia in questo paese.
La democrazia nei luoghi di lavoro è fondamento per uno stato di diritto e che si voglia in qualsiasi accezione democratico, la libertà di parola in ogni forma è precondizione necessaria in uno stato di diritto, tutto il resto è tirannia da combattere.
Non a caso il ripristino di garanzie nell’occupazione cozza con i piani di precarietà e supremazia del profitto di chi ci vuole fedeli solo al nostro sfruttamento più sfrenato.
Mentre anche negli ordinamenti militari si riconosce la possibilità di non obbedire ad un ordine ritenuto sbagliato, un datore di lavoro vorrebbe la totale accondiscendenza dei suoi dipendenti sull’altare del profitto.
Crediamo che uniti possiamo opporci e invertire questa tendenza alla barbarie e a partire dai luoghi di lavoro ricostruire una società degna di essere vissuta. Fatta di solidarietà, attenzione al più debole, possibilità di un futuro. Contrapposta alla giungla di sopraffazione odio e guerra al più povero.
A partire da noi auspichiamo alla creazione di una rete di supporto, solidarietà e cooperazione per difendere la libertà di opinione contro l’obbligo di fedeltà.
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