Fra qualche giorno sarà tutto dimenticato. Ad oggi stanno indagando sulle responsabilità dell’incendio che ha bruciato vivo Moussa Ba, africano, il terzo in un anno e sempre nelle stesse baracche. Nel frattempo poche decine vengono trasferiti in centri di raccolta lontani, sono pochi quelli che accettano questa soluzione, la maggioranza vuol rimanere li, la ragione è semplice: nelle vicinanze ci sono i campi di raccolta degli agrumi, lavorare in questi campi vuol dire portare a casa qualche decina di euro per sopravvivere. Le baraccopoli, questi nuovi insediamenti urbani, sono funzionali al lavoro nei campi di questi braccianti, veri e propri operai dell’agricoltura. La collocazione territoriale dipende dalla distanza dei campi di lavoro, il numero di abitanti dal numero di braccia che l’agricoltura ha bisogno in quella zona, poi naturalmente a questi vanno aggiunti venditori ambulanti, gente momentaneamente senza lavoro. Questo numero oscilla durante le stagioni ma senza che mai le baraccopoli si svuotino del tutto. Per i padroni che impiegano questi braccianti, le condizioni delle baraccopoli, di questi agglomerati urbani, non sono un problema, anzi. Se il prezzo che devono pagare deve permettere ai braccianti di avere una casa in muratura, un riscaldamento efficiente, dei servizi pubblici, i salari devono salire, ma questo e ciò che i padroni agricoli e della grande distribuzione vogliono evitare ad ogni costo. Meglio le baraccopoli, non si paga l’affitto, né luce, né gas, perché il bracciante non ha bisogno di una casa, serve solo un giaciglio per le poche ore di riposo fra un turno e l’altro, non ha bisogno di luce elettrica, per la sera basta una pila, per i servizi igienici ci si può lavare in giro, nei corsi d’acqua nelle campagne ed arrangiarsi allo stesso modo per le necessità corporali. Così il prezzo delle loro braccia si attesta a 0.50 euro per ogni cassetta di arance e 1 euro per i mandarini, fanno dai 25 a 30 euro al giorno per dodici ore di lavoro. La terra è bassa e le cassette pesano. Perché questi nuovi insediamenti umani, che si formano all’interno di zone ad alta concentrazione agricola, vengono accettati come fatto normale, la risposta si trova: è il sistema che permette ai padroni di sfruttare al massimo i braccianti provenienti dall’emigrazione, ed ai braccianti di trovare un padrone che li impiega con un salario sotto il minimo di sussistenza. La polizia appostata agli ingressi, della cittadella di legno e plastica non vede e non sente, non sa che gli abitanti che escono al mattino prima dell’alba andranno a spaccarsi la schiena per uno dei padroni di quelle 5.200 aziende agricole della Piana di Gioia Tauro, non sa e non vede nemmeno il Prefetto che dal suo ufficio controlla, da lontano. Quando poi per una tragedia annunciata, la condizione di queste baraccopoli conquista i telegiornali, sale l’indignazione e il Ministro dell’Interno minaccia di chiuderle. Non minaccia, si intende, chi costringe degli esseri umani, se vogliono sopravvivere, a vivere come bestie. No, minaccia gli abitanti della baraccopoli di San Ferdinando di deportarli. Ma lo ha già fatto mesi fa fermandosi subito, i primi che vogliono che la baraccopoli rimanga dove è e nelle stesse condizioni sono i padroni delle aziende agricole e Salvini è d’accordo con loro. Quando la TV si infila nelle baracche, e lo fa ogni tanto, quando muore qualcuno, tutti si dicono indignati, ma la baraccopoli rimane lì, anzi si allarga ai nuovi venuti che il mattino dopo prenderanno la strada dei campi. Parliamo di circa 4.000 braccianti nella Piana, 2.000 più o meno abitano nella baraccopoli di San Ferdinando, un vero proprio paese di campagna fatto di legno, cartone e plastica, senza servizi, che funziona così, ormai da anni. Anche l’indignazione, la denuncia hanno perso il loro ruolo, nessuno, tanto meno le autorità dello Stato, e nemmeno i locali denunciatori di professione hanno interesse a colpire i padroni, qui, nella Piana di Gioia Tauro. I veri responsabili di questa vita da schiavi dei braccianti. Cancellare questi nuovi insediamenti urbani nelle campagne, le baraccopoli, vorrebbe dire mettere mano sul rapporto di lavoro funzionante nei campi di raccolta. Ma dal padrone agricolo e dai “suoi” braccianti bisogna girare alla larga. Lo sa il prefetto, la polizia, Salvini e tutti i politici locali e nazionali. Ma se c’è una cosa che i braccianti di colore sono costretti ad imparare a loro spese, ed impareranno presto, è che nessuno farà migliorare la loro situazione se non loro stessi, un loro proprio movimento di lotta. Anche nella più disperata baraccopoli, sotto il ricatto dei caporali dei campi di raccolta può prodursi la possibilità di organizzarsi, mettersi assieme, far valere collettivamente le proprie rivendicazioni. Anzi, sarà proprio la vita in comune nella baracche, il collegamento continuo e ravvicinato ad essere veicolo di un sistema di solidarietà che una volta costituito non potrà più essere spezzato. Nessuna delega a nessuno se non ai loro diretti delegati. Alla denuncia impotente dei perbenisti umanitari si sostituirà la lotta cosciente degli abitanti delle baraccopoli e loro sapranno con chi fare i conti, nelle campagne circostanti.
E.A.
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