CAPORALATO. LA FOGLIA DI FICO DELLA “BUONA” LEGGE
Fu sull’onda “emotiva” della morte di tanti braccianti nei campi nell’estate 2015 che il Parlamento fu costretto ad approvare la cosiddetta “legge sul caporalato”. I padroni delle campagne hanno sempre voluto avere mano libera sulla forza-lavoro per imporre condizioni di lavoro tremende e salari da fame. Però i fatti del 2015 non si potevano nascondere. Sono sempre accaduti, ma quell’anno si sono concentrati in tre mesi, fra luglio e settembre, erano una realtà “imbarazzante” per un Paese che si dice moderno e democratico! Così è nata la legge 199 del 29 ottobre 2016 recante “disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”. Come è capitato più volte nella storia della borghesia, ci sono momenti in cui, per mantenere il consenso sociale, essa non può esimersi dal nascondersi dietro una “buona” legge per poter continuare a perpetrare i propri affari. Cede apparentemente qualcosa per mantenere intatto il proprio regime di sfruttamento. Tanto la legge si può oggi aggirare e domani limare o eliminare.
Ma nel dettaglio che cosa dice la legge sul caporalato? Essa stabilisce che “commette il reato di caporalato chiunque:
– recluti manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
– utilizzi, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno.
Il reato di caporalato viene punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato”.
Ma come si configura lo sfruttamento in condizioni di caporalato? “(…) in presenza di una o più delle seguenti condizioni:
§ reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
§ la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
§ sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
§ sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti”.
Nulla di trascendentale, fumose enunciazioni di principio, anche se per la prima volta la legislazione italiana stabilisce, almeno sulla carta, pene detentive per caporali e coloro che ricorrano a essi. Ma i braccianti che dovrebbero denunciare il caporalato non hanno la possibilità di farlo se non sono regolari: finirebbero per primi incriminati per clandestinità, e la legge su questo punto tace. Se invece sono regolari, denunciando i caporali e i padroni corrono il rischio di non lavorare più e sono esposti a ogni tipo di ritorsione: la legge non prevede al riguardo nessuna misura particolare di salvaguardia.
E ancora: chi deve e può controllare, eventualmente dall’esterno, le condizioni di lavoro nelle campagne interessate al caporalato? È stata forse introdotta qualche figura particolare? Nessuna!
Infine è indubbio che tra forze dell’ordine locali e padroni agrari esista un rapporto di mutua soddisfazione e complicità. Al bar si beve insieme, nessuno vede niente, si chiude un occhio e poi anche l’altro. Ecco dunque che la “buona” legge, senza gli strumenti per renderla efficace, si rivela una doppia fregatura. Funziona da bandiera per le “buone” anime che la chiedono e la promulgano, copre le cattive anime che alla sua ombra continuano ad agire come e peggio di prima.
Nulla di straordinario, quindi, la norma legislativa non implica alcuna rinuncia allo sfruttamento vero dei braccianti, al furto da parte dei padroni di valore da essi prodotto, dice solo di limitarne le forme più aspre e socialmente “antipatiche”. Eppure, per renderla in qualche modo credibile, almeno nei primi tempi le forze dell’ordine qualche controllo hanno dovuto farlo e qualche arresto eseguirlo e la magistratura qualche condanna l’ha emessa. Così, poco dopo la promulgazione della legge, numerosi padroni, “onesti padri di famiglia” che sfruttano braccianti italiani e stranieri, si sono organizzati in più località contro la legge. Molti in Puglia, terra storica di caporalato, si sono uniti nel Movimento per l’agricoltura, con lo slogan “No caporali, sì agricoltori”. Due i passaggi della legge più contestati. Il primo: l’adozione di misure cautelari per l’azienda agricola in cui è commesso il reato (e non solo per i caporali). Il secondo: la necessità di rispettare i contratti collettivi territoriali, che cozza con le condizioni reali del mercato capitalista in cui i padroni agrari sono chiamati a misurarsi! “Impossibile pagare fino a 80 € a giornata lavorativa, – sostiene il Movimento – con l’uva che viene svenduta a 50 centesimi al chilo”.
Per dare man forte ai capitalisti agrari anche la Lega si è schierata contro la legge sul caporalato, puntando ad allentare i controlli contro gli sfruttatori. Fra i padrini meridionali di questo partito ci sono anche i padroni delle campagne ai quali la legge non è mai andata giù. E mentre Salvini e il ministro dell’Agricoltura Centinaio proclamano che “presto cambieremo la legge” e per la Flai-Cgil “il problema è che il fenomeno del caporalato” costa 3,5 miliardi di euro all’anno di gettito fiscale in meno per lo Stato, la legge viene sempre più spesso aggirata: ad esempio si rilasciano buste paga regolari a fronte di salari irregolari, esistono agenzie di viaggio regolari che si occupano del trasporto ma in realtà nascondono la somministrazione irregolare di manodopera nascosta, i caporali scorrazzano alla vecchia maniera ma con pullmini dai vetri oscurati e così via.
L.R.
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