La Cina e l’industrializzazione dell’Africa. Nuove fabbriche, nuovo sfruttamento, nuovi operai, nuove forze di ribellione.
Il Tg3 per una settimana ha mandato in onda diversi servizi sul massiccio intervento economico della Cina in Africa (qui quello del 3 giugno) . Il fenomeno è in realtà non proprio recente e ne abbiamo anche già parlato (si veda Cinesi in Africa, imperialismo oggi), la novità che ha fornito il pretesto per parlarne al Tg3 è l’entrata in vigore il primo di giugno dell’area di libero scambio del continente africano. Un accordo per fare di tutta l’Africa, entro pochi anni, un unico mercato per le merci, i capitali e le persone come nella UE. Neanche a dirlo e come grande sponsor di questa “rivoluzione” economica vi troviamo la Cina. La quale negli ultimi 20 anni è diventata la nazione di riferimento per buona parte delle borghesie africane.
Una rete infrastrutturale ferroviaria strategica
La Cina con i vari stati dell’Africa stringe accordi economici, li fa rientrare nel suo grande progetto della “nuova via marittima della seta” (Belt and Road Initiative), ingrandisce e costruisce porti, unisce città con linee ferroviarie moderne. Due gli esempi più rilevanti già in funzione: la linea che unisce in Kenia la capitale Nairobi e il porto di Mombasa (circa 450 km); e quella che unisce la capitale etiope, Adis Abeba, al porto di Doraleh di Gibuti (circa 750 km). In entrambi i casi si è permesso a passeggeri, ma soprattutto alle merci, di arrivare rapidamente al mare e quindi alle rotte marittime internazionali, portando la velocità di percorrenza da 35 km/h a 100-120km/h, o il tempo di percorrenza dei container da due giorni su gomma alle 5-6 ore. L’intero progetto della ferrovia keniota prevede di arrivare in un paio di anni fino a Kampala, la capitale dell’Uganda (altri 500 km), e altre 4 ramificazioni verso il Sudan meridionale, il Congo, il Burundi e la Tanzania che, a progetto ultimato, vanteranno una rete complessiva di 3.238 chilometri sub-appaltati, creando un’occupazione complessiva di oltre 40.000 posti di lavoro.
La rivitalizzazione da parte cinese delle antiche rotte ferroviarie coloniali in Africa seguono tutte lo stesso copione che vede al centro la banca per l’import export cinese (Chexim) per il finanziamento – per ogni tratta mette a disposizioni capitali per circa 5-6 miliardi di dollari-, e le imprese cinesi, come il colosso China Railway Engineering Corporation. In questo modo oltre alle due già citate linee hanno ritrovato moderno splendore tratte come il “Caminho de Ferro de Benguela” costruito dai portoghesi: 1.350 chilometri che collegano le ricche miniere di Katanga in Congo con il porto angolano di Lobito. In Nigeria, la linea Lagos-Kano e la costiera che da Lagos arriva a Calabar attraverso il Delta del fiume Niger. Ma sempre cinese è anche la breve ferrovia che in Egitto deve collegare la nuova zona industriale e amministrativa che ospiterà 5 milioni di persone che sta sorgendo a 50 km a Est del Cairo. In Algeria poi dal 2000 al 2014 le imprese cinesi hanno costruito 13mila km di nuove strade e 3mila di ferrovie.
Il supporto militare
Nel 2017, acoronamento dell’azione imperialista, la Cina a Obock, nella Repubblica di Gibuti, ha insediato la sua prima base militare all’estero, capace di ospitare 10.000 tra militari e civili. “Potrà accogliere grandi navi da combattimento, avrà alloggiamenti sia per le forze di marina che dell’esercito e sarà completata da una base aerea” – dichiarano i vertici militari cinesi. Il ministro della Difesa aggiunge che: lo scopo principale è la «lotta alla pirateria» e fornire una base a terra per i marinai costretti a lunghe missioni in mare. Giammai – garantisce – servirà come “una minaccia per le altre potenze”. Le quali sono così avvisate.
D’altra parte la base militare cinese, a soli 40 km in linea d’aria da quella statunitense che ospita 4500 militari, è solo un tassello dell’intervento dei cinesi nella Repubblica di Gibuti .
Il porto di Doraleh (Gibuti)
Un capitolo a parte sui progetti cinesi bisognerebbe aprire per i vari porti che “come perle” stanno sulla via della seta. Ci limiteremo alcaso del porto di Doraleh a Gibuti città che ne è un esempio interessante. Poiché anche in questo caso la Cina ha messo in campo tutta la sua potenza e non ha semplicemente ammodernato il vecchio porto, ne ha fatto un altro dal nulla sul litorale opposto, costruendo il porto multifunzionale di Doraleh dove possono attraccare grandi navi cargo e moderne petroliere. Ovviamente la ferrovia Addis Abeba-Gibuti gestita dai cinesi ha in realtà come ultima stazione per i treni merce proprio Doraleh.
Non ci sfugge certo che tutto questa grande “missione civilizzatrice” della Cina, fratellanza tra il popolo asiatico e i popoli africani, è ormai oggi un paravento alle ambizioni di predominio mondiale e sfruttamento delle immense risorse africane. E in questo il grande capitale cinese si trova in competizione con le multinazionali europee e statunitensi. Ma proprio come attore di forte intraprendenza, con l’ambizione di diventare unico e vincente, la Cina sta svolgendo nei confronti dell’intero continente africano un’opera di accelerata industrializzazione che forse nessun’altra potenza imperialista ha mai svolto finora.
La borghesia cinese costruisce in Africa città intere in zone disabitate, distretti industriali, porti e ferrovie con capitali accumulati in patria in grande quantità frutto dello sfruttamento degli operai cinesi. La sua sovrapproduzione di capitali e merci la porta a cercare nuovi mercati. In Africa, in particolare, prospetta la formazione del quarto polo industriale mondiale, individuandone le immense potenzialità di crescita che caratterizzano i paesi in cui la produzione industriale di massa del capitale non è ancora predominante e si può affermare facilmente su quelle artigianali, semindustriali, caratterizzate da basse quantità di capitale e dalla sussistenza. La Cina nei confronti dell’Africa si comporta come l’Inghilterra dell’ottocento nei confronti dell’India o della Cina stessa di allora. Ma lo fa con le forze moltiplicate dell’attuale capitalismo. In pochi anni ha rivoluzionato e rivoluzionerà l’intero continente africano. Allo stesso tempo creando, come già è successo in Asia, una nuova e potente classe operaia in Africa.
La classe operaia africana
Secondo uno studio della McKinsey & Company del luglio 2017 – quindi, data la velocità di evoluzione, già datato-, sono almeno 10.000 i capitalisti cinesi privati che operano in Africa. Non si stanno quindi qui considerando le grandi compagnie a capitale statale responsabili delle grandi infrastrutture di cui abbiamo parlato prima. Ma di borghesi cinesi che hanno aperto nuove industrie per vendere sul mercato locale o per esportare merci made in Africa lungo la “via della seta”, in Europa e Usa, in Asia e nella stessa Cina. Il 15% di queste imprese sono ancora nel settore delle costruzioni e quindi si ricollegano al processo di sviluppo dell’Africa che abbiamo già illustrato. Un 25% è nei servizi, ma il 31% è nel settore manifatturiero e – sempre secondo lo studio- “già sono artefici del 12% della produzione industriale africana, per un valore di circa 500 miliardi di dollari annui”. “In 1000 imprese intervistate -continua lo studio- l’89% degli addetti erano africani, per un totale di 300 mila operai. Riparametrato alle 10 mila imprese cinesi in Africa, questi numeri suggeriscono che le imprese cinesi arrivino ad occupare molti milioni di africani”. Un altro dato interessante è che il 93% del fatturato di queste fabbriche manifatturiere viene realizzato localmente, con qualche significativa eccezione come le fabbriche di indumenti in Lesotho, o la fabbrica di scarpe Huajian in Etiopia che esportano la maggior parte della produzione.
Il caso etiope
La Fabbrica di Huajian, menzionata anche nei servizi del Tg3 con cui abbiamo iniziato l’articolo, ci permette di fare ulteriori considerazioni sul crescente numero di operai in Africa, concentrando l’attenzione sull’Etiopia.
La fabbrica si trova nell’Eastern Industry Zone, a Dukem, il primo a essere costruito di 12 distretti industriali che il governo etiope ha progettato e di cui 5 sicuramente sono stati costruiti interamente dalla Cina. Ancora una volta ritroviamo le solite due imprese cinesi, la China Civil Engineering Construction Cooperation (CCECC) e la China Communications Construction Company (CCCC) e la banca di investimento Chexim. Ogni distretto raccoglie circa 20 fabbriche e un numero di operai per ciascun distretto che va da 30 mila operai a 100 mila come quello di Hawassa. I conti in questo caso si fanno in fretta, tra il 2016 ed oggi, mentre in parallelo veniva costruita la nuova linea ferroviaria per collegare Addis Abeba a Gibuti, le fabbriche nei nuovi distretti industriali etiopi hanno cominciato a lavorare e tra i 300 mila e il mezzo milione di nuovi operai dall’Etiopia si sono aggiunti a una classe operaia in Africa sempre più forte e numerosa, che già fa sentire la sua voce. Come nel marzo scorso quando, proprio nel distretto di Hawassa, migliaia di operaie e operai sono scesi in sciopero per per rivendicare aumenti salariali, condizioni di lavoro sicure, e la fine delle molestie sessuali. E questa è l’altra faccia inevitabile della medaglia del processo di industrializzazione cinese in Africa di cui i borghesi cinesi come i padroni di tutto il mondo non vogliono sentire parlare.
Concludiamo riportando le considerazioni di Deborah Brautigam dell’Università John Hopkins, studiosa da anni delle relazioni tra la Cina e l’Africa. Pur dal suo punto di vista da borghese liberal americana, preoccupata che il suo governo abbia nei confronti dell’Africa una politica economica perdente, non può tuttavia che arrivare a considerazioni rilevanti per le nostre tesi.
«L’affermazione che la Cina stia creando pochi posti di lavoro in Africa è pura e grezza propaganda politica. […] La Cina sta creando per la prima volta in Africa una robusta classe operaia che accede ai consumi. Esiste certamente il divario tra poveri e ricchi che sta aumentando ma questa è una dinamica intrinseca al capitalismo mondiale.
Ricordiamoci che la nascente classe operaia africana non solo contribuirà a creare nuovi mercati in quanto si apre il suo accesso ai beni di consumo di base e immobiliari. Tra meno di un decennio la classe operaia africana contribuirà alla trasformazione democratica del continente tramite l’inevitabile lotta di classe mirata ad acquisire maggiori diritti civili, maggior reddito e migliori condizioni di lavoro. Sotto il secolo occidentale in Africa non si è mai sviluppata una classe operaia se non in rare eccezioni come il Sud Africa. Di conseguenza i conflitti sociali sono rimasti sul piano tribale. Non hanno contribuito allo sviluppo sociale e alla democrazia. Al contrario hanno favorito dittature, guerre civili – etniche e genocidi»
Ma “l’inevitabile lotta di classe”, che questa rappresentante della piccola borghesia americana mette in evidenza, potrebbe non fermarsi alle sue agognate conquiste democratiche, ma superarle. La rivoluzione operaia ha bisogno di operai, il capitalismo cinese in Africa li sta producendo a centinaia di migliaia per volta.
R.P.
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