I sindacalisti di Fiom, Fim, Uilm e Usb cercano di smorzare la rabbia degli operai e illuderli che un altro padrone – Stato, privato o entrambi – sia più capace di Mittal. Non sanno più che cosa inventarsi, ma fra gli operai hanno sempre meno credito.
“Siamo
a un punto di non ritorno, c’è il forte rischio di non riuscire
più a governare la rabbia dei lavoratori”.
Le allarmate parole di Rocco Palombella, segretario generale Uilm, un
sindacalista che ha fatto carriera all’ombra prima dell’Italsider
e poi dell’Ilva di Taranto, riassumono senza equivoci la tensione
che si respira negli stabilimenti siderurgici di ArcelorMittal, a
Taranto, a Genova-Cornigliano e a Novi Ligure (Al). Se Palombella ha
parlato in questi termini, lo ha fatto, spinto dal timore che gli
operai, esasperati, scavalchino i sindacati organizzando in proprio
il malcontento e la rabbia che covano ormai da anni, per due ragioni.
La prima, per far recuperare spazio ai sindacati (esautorati di fatto
dai vertici di ArcelorMittal nell’accordo firmato il 6 marzo con il
governo Conte) ripresentandoli come forza che può, più e meglio di
chiunque, tenere buoni gli operai, purché venga messa nelle
condizioni di farlo. La seconda, quindi, per spingere ArcelorMittal e
governo a trovare insieme con essi un nuovo accordo che,
salvaguardando gli interessi dell’una e dell’altro, trovi la
quadratura del cerchio per evitare esplosioni incontrollabili del
malcontento operaio, oppure per individuare un nuovo padrone più
efficiente che sostituisca Mittal e tiri fuori
le
castagne dal fuoco.
È stata proprio questa confluenza di
obiettivi, dare uno sfogo alla rabbia operaia per controllarla,
governarla e smorzarla e usare il numero degli operai per aumentare
il proprio peso contrattuale, che ha spinto Fiom, Fim e Uilm ad
organizzare il 18 maggio, a Genova una manifestazione per rispondere
alla richiesta impellente degli operai di opporsi alla nuova
richiesta di cassa integrazione, e il 25 maggio, in occasione
dell’incontro fra l’ad Morselli di ArcelorMittal e tre ministri,
il sit-in degli operai di Taranto davanti alla Prefettura, mentre
l’Usb formava un presidio davanti alla portineria A della fabbrica.
Con la differenza che a Genova la “passeggiata” è quasi sfuggita
di mano, gli operai hanno preso il campo e, in barba al divieto di
manifestazioni sancito dalle disposizioni anti-Coronavirus, hanno
gridato a chiare lettere che non hanno alcuna voglia di fare gli
schiavi di Mittal, mentre a Taranto il sit-in si è risolto in una
sparuta e tranquilla scampagnata in città e il presidio in una
riunione in famiglia, con l’unico risultato di dividere gli
operai.
Fiom, Fim, Uilm e Usb, che hanno la pesante
responsabilità di aver firmato l’accordo del 6 settembre 2018 che
sancì l’ingresso di ArcelorMittal nell’ex Ilva e l’espulsione
dalla fabbrica di Taranto di 2.600 operai con il raggiro della cassa
integrazione e dei corsi di formazione e che allora inneggiavano ai
nuovi padroni indiani che avrebbero fatto risorgere l’ex Ilva dopo
la cacciata dei Riva, ora perorano l’abbandono dei Mittal, definiti
“incapaci”,
e agitano il vessillo di un nuovo padrone più efficiente, sia esso
lo Stato o un privato o entrambi insieme. Per essi il problema non è
la difesa degli interessi immediati e futuri degli operai, bensì “il
futuro della siderurgia italiana”
e cercano di farlo diventare il primo pensiero anche degli operai. A
questi, invece di spingerli alla lotta, propinano il mito del padrone
più capace e quindi più buono, a cui affidarsi. È lo stesso gioco
sporco che hanno fatto due anni fa a favore di Mittal, ma non gli è
andata bene. La crisi economica capitalistica e quella del settore
dell’acciaio in particolare hanno sconvolto i loro piani studiati a
tavolino, hanno rotto il giocattolo e ora essi cercano di ricomporne
i pezzi ma con una faccia e un nome diversi. Gli operai, per essi,
non dovrebbero alzarsi e lottare per se stessi, ma appoggiare ogni
volta il padrone da essi proposto come più efficiente e capace di
garantire il posto di lavoro. Una sorta di nazionalismo localistico
smentito dalla realtà. Mittal non è migliore o peggiore di altri
padroni, è un padrone che fa i suoi interessi e, se c’è crisi,
gli basta produrre l’acciaio che riesce a vendere e buttare gli
altri operai fuori, perché
non gli servono. Fa esattamente quello che farebbe un qualsiasi altro
padrone, privato o Stato. E quindi, al sodo
dell’interesse degli operai, per questi con un padrone o un altro
il risultato non cambia. Ecco perché Palombella (e non solo lui) si
allarma di non riuscire più a controllare la rabbia degli operai. Sa
bene che, alla lunga, non è più tanto facile manovrarli e che i
nodi del malcontento operaio arrivano sempre al pettine dello scontro
sociale.
L.R.
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