L’unità organizzata dei braccianti, da Nord a Sud, è la condizione indispensabile per dare vita a scioperi e manifestazioni tali da imporre ai padroni agrari, reali, migliori condizioni di lavoro.
Per
le migliaia di braccianti agricoli immigrati “invisibili”
(clandestini, senza permesso di soggiorno, con rapporti di lavoro
irregolare, senza diritti e tutele) il problema più grave è la
mancanza di una propria organizzazione sindacale realmente capace di
affermarne gli interessi, di un sindacato che gestisca lotte e
contrattazione e sia in grado di elaborare richieste concrete e di
mettere in campo scioperi seri per ottenerle. Più del permesso di
soggiorno, più dell’assenza dell’alloggio, più del salario da
fame, più della sottomissione al caporale, è la frammentazione in
individui sparpagliati a essere il loro problema vitale.
Ogni
dito, preso da solo, ha una forza limitata. Se però le cinque dita
di una mano sono raccolte a pugno chiuso, hanno una forza incredibile
che può fare la differenza. Così è per i braccianti agricoli
immigrati irregolari: divisi, impauriti, ciascuno per proprio conto,
vengono ricattati e obbligati a subire la legge del padrone e del
caporale; uniti, organizzati, saprebbero far fronte a padroni e
caporali e imporre con la forza delle braccia conserte le proprie
richieste (le rivolte dei braccianti, a Rosarno, Nardò e altrove,
sono scoppiate quando si sono, seppur temporaneamente, mossi
insieme).
Proprio per soddisfare le esigenze più immediate dei
braccianti irregolari e, temperando queste, evitare che si
organizzino in proprio, diventando un elemento di rottura sociale,
sia i sindacati bracciantili ufficiali sia un gran numero di
associazioni genericamente umanitarie e caritatevoli e di singoli
individui si affannano a prendersi in qualche modo “cura” di
queste pericolose “mine vaganti”. A marzo Flai Cgil (Federazione
lavoratori dell’agroindustria) ha lanciato una campagna per i
diritti civili degli immigrati che ha coinvolto migliaia fra
associazioni e cittadini (fra cui il cardinale Krajewski,
elemosiniere di papa Francesco, don Ciotti, Saviano, Manconi, Lucano,
Barca, Caritas, Fondazione Migrantes, Intersos, Libera, Terra!,
Emergency, Arci, Acli, Oxfam, ActionAid, Croce Rossa, ecc.). E Flai
Cgil continua a seminare illusioni a piene mani sostenendo che la
regolarizzazione promessa dall’art. 103 del decreto Rilancio
è
“un
traguardo storico”,
visitando con il responsabile nazionale del dipartimento politiche
migratorie Jean René Bilongo campi per migranti per spiegare le
procedure per “l’emersione
del lavoro nero”
e chiedendo “una
più stretta integrazione con la legge 199/2016 contro il caporalato
affinché questa venga applicata in tutte le parti, collocamento,
accoglienza e prevenzione, istituendo le sezioni territoriali per il
lavoro agricolo di qualità”.
Per Fabio Ciconte, direttore dell’associazione “Terra!”, “la
regolarizzazione dei lavoratori stranieri irregolari è un primo
passo per allargare la maglia dei diritti”.
E la campagna “Ero straniero” ammette il “primo
passo”,
ma si augura “una
revisione generale della legislazione in materia di
immigrazione”.
Tutti
questi signori non hanno alcun interesse che i braccianti immigrati
si uniscano e organizzino contro i padroni agrari e i loro scherani,
i caporali. Non vogliono che organizzino scioperi, che chiedano un
contratto serio e il suo rispetto. Sono, al sodo, esponenti della
borghesia perbenista e riformista che da un lato non tollera la
vergogna degli irregolari e dei ghetti, discredito sulla società
alla quale essi appartengono, e dall’altro cerca di assorbire le
istanze degli immigrati per spegnerle e impedire che si tramutino in
lotta (di fronte alla quale sarebbero costretti a prendere
posizione!). Il loro impegno non va oltre la richiesta del diritto di
soggiorno, di “migliori” condizioni di alloggio, di lavoro e di
vita, nella cornice comunque della sottomissione alle esigenze di
profitto del capitalismo agrario nazionale. Il percorso che
preferiscono è quello della “filiera etica”, che fra
produzione, trasformazione e commercializzazione non fa ricorso a
braccianti irregolari. Per essi ciò che conta è premiare il padrone
“etico” e quindi “buono” verso i braccianti, non fare fino in
fondo gli interessi dei braccianti immigrati, né tanto meno
liberarli dalle condizioni capestro in cui sono costretti a lavorare.
Un altro percorso che prediligono è cooptare i
capi che nascono dalle lotte bracciantili. È il caso di Yvan Sagnet,
che a Nardò nel 2011 organizzò la protesta
degli immigrati che raccoglievano pomodori trasformandola in sciopero
contro le inumane condizioni di lavoro. Lo sciopero durato un mese
portò all’introduzione del reato di caporalato e al primo processo
in Europa sulla riduzione in schiavitù dei braccianti, concluso con
la condanna di dodici padroni e caporali. Ma poi la Flai Cgil lo
inquadrò come sindacalista, per brillare di luce riflessa e
svuotarne la carica di lotta. Come adesso fa con Aboubakar
Soumahoro
l’Usb, che si limita a denunce generiche e mischia le
rivendicazioni degli immigrati “invisibili” in un minestrone di
cui fanno parte cittadini sensibili e consumatori etici.
Gli
immigrati clandestini non hanno bisogno di perdersi in riunioni e
manifestazioni interclassiste. Ben venga la solidarietà, purché si
esprima come appoggio concreto a precise rivendicazioni supportate da
scioperi e altre forme di lotta conseguente. Benché per i braccianti
sia meno facile organizzarsi rispetto agli operai, uniti dallo stare
nella stessa fabbrica, l’esperienza storica dimostra che pure essi
possono unirsi e organizzarsi. Il bracciantato italiano ha una lunga
esperienza di leghe bracciantili, organizzazioni rurali di classe che
univano, “legavano” gli operai agricoli di uno specifico
territorio. L’unità
è sempre stata la premessa indispensabile per organizzare gli
scioperi, base del conflitto con i latifondisti e i capitalisti
agrari per ottenere reali, migliori condizioni di lavoro. Una forma
organizzativa utile, a ben vedere, non solo per gli immigrati
“invisibili”, ma anche per quelli regolari, cioè provvisti di
permesso di soggiorno, e per i braccianti italiani, se anche questi,
gli uni e gli altri, sono, malgrado la formale “diversità”
rispetto agli immigrati clandestini, ugualmente schiavi di padroni e
caporali e disorganizzati di fronte al loro strapotere. Per essere,
insieme, più forti.
L.R.
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