La fabbrica barese è specchio dei grossi cambiamenti che i padroni dell’auto hanno introdotto negli ultimi 30 anni di motorizzazione. Cambiamenti che incideranno fortemente sulla condizione operaia.
La Bosch ha annunciato il licenziamento di 700 operai su 1.700 nei prossimi cinque anni nello stabilimento di Bari che produce componenti per i motori diesel. L’azienda barese negli anni ’90, sostenuta da forti finanziamenti pubblici, aveva industrializzato il common rail, un innovativo sistema di alimentazione montato sui motori diesel che garantì la progressiva riduzione delle cilindrate e il miglioramento delle prestazioni. Così questa nuova tecnologia, frutto del centro di ricerche della Bosch di Bari, rese le motorizzazioni diesel sempre più competitive sul mercato motoristico per la mobilità individuale, collettiva e lavorativa, prima dominato dalle motorizzazioni a benzina, tanto da essere applicato dalle più importanti aziende automobilistiche mondiali. Quello barese diventò in breve uno stabilimento d’eccellenza per il Gruppo Bosch di Stoccarda. Grazie a incentivi economici pubblici garantiti dalla Regione Puglia, come il pagamento dei contributi previdenziali dei dipendenti per alcuni anni, in breve tempo nella “fabbrica modello” che assumeva donne e uomini l’occupazione schizzò a circa 2.500 unità, delle quali oltre 2.200 costituite da operai. Nei due decenni a cavallo del 2000 la Bosch contribuì a dare vita agli anni “ruggenti” del comparto barese della componentistica auto, formato anche da Getrag, Magneti Marelli, Oerlikon Graziano e Masmec. Fabbriche sulle cui linee lavoravano giovani operai con medio livello di scolarizzazione (periti meccanici, periti elettrici, periti elettronici), altamente produttivi, assunti in gran parte con contratti di formazione e lavoro e incentivi pubblici. Fabbriche in cui i profitti crescevano di giorno in giorno.
La sovrapproduzione, come conseguenza dello spingere sempre più in alto la produzione per fare profitti oltre la capacità del mercato di assorbire la merce a certi livelli di prezzi, si è manifestata in superficie con i primi segni di crisi comparsi per la Bosch all’inizio degli anni Dieci dell’attuale secolo. È allora che ha cominciato ad affermarsi in maniera prima strisciante, poi evidente la contraddizione fra sovrapproduzione e saturazione del mercato, che si è risolta con il calo della domanda di mezzi con motori diesel, ripercuotendosi sulla richiesta di componenti. Nel 2012 alla Bosch, che allora produceva pompe ad alta pressione e pinze freno per mezzi a diesel, i “volumi produttivi”, per dirla con il gergo sindacale, sono scesi quasi del 30% rispetto al 2011, i conti sono andati per la prima volta in perdita, l’occupazione è scesa e i sindacati hanno firmato per i 1.975 occupati a tempo indeterminato i contratti di solidarietà: orario di lavoro ridotto e salario pure. Nello stabilimento barese vennero trasferite tre delle sette linee di pompe a ingranaggi prodotte dallo stabilimento Bosch di Hallein, in Austria, nel tentativo di far riprendere produzione e profitti. Tentativo inutile.
Il decennio successivo è stato un lento stillicidio di espulsioni di operai dal ciclo produttivo della Bosch. Quegli operai che 10-15 anni prima la stampa borghese locale e nazionale aveva presentato ed esaltato come garantiti da un buon posto di lavoro a tempo indeterminato, adesso venivano indotti a uno a uno a prendersi l’incentivo e ad andarsene dalla fabbrica. Tra le ovvie resistenze degli operai, in gran parte sui 35-40 anni e con famiglia e mutuo o affitto a carico, l’occupazione si è comunque ridotta di 300 unità, arrivando agli attuali 1.700.
Dallo stillicidio di allontanamenti di operai in dieci anni – in una cornice di fondo fatta prima di contratti di solidarietà e dopo dal ricorso sempre più massiccio alla cassa integrazione in nome della flessibilità “salva-occupazione” che, per i sindacati attivi in fabbrica, ogni operaio era tenuto a dimostrare! – al taglio netto di 700 unità prefigurato in cinque anni, accompagnato da dubbi e voci su una futura sorte non diversa di gran parte delle restanti 1.300, il passo è stato breve e ha trovato la sua origine in apparenza nell’accelerazione netta del calo della domanda di componenti per motori diesel e nell’espansione crescente della motorizzazione elettrica. In realtà, sia in un caso sia nell’altro, nella ricerca di un determinato saggio di profitto e di un mercato da sviluppare. La motorizzazione elettrica ha avuto un’espansione prima lenta e ora sempre più rapida che, in Italia come a livello mondiale, sta togliendo spazio alla motorizzazione basata sui motori endotermici o a combustione interna o detti, più comunemente, a scoppio (alimentati da un combustibile che può essere la benzina, il gasolio, il cherosene, il gas naturale o metano, il gpl, l’alcool). Le imprese automobilistiche hanno individuato e trovato un nuovo mercato dalle interessanti prospettive per l’investimento dei loro capitali e la produzione di nuovi profitti, che appare più attrattivo di quello tradizionale, e nessuna vuole rimanere indietro. Sotto la maschera della cosiddetta transizione energetica sono pronte a darsi battaglia, conta poco se l’energia elettrica per alimentare i motori elettrici venga prodotta con l’utilizzo di combustibili fossili! Il capitale corre, gli azionisti non hanno interesse a occuparsi di ricadute sugli operai delle modifiche dei cicli produttivi, i mezzi di produzione diventano obsoleti e con loro la forza lavoro che li impiegava: così si fa presto a chiudere le fabbriche ed eventualmente riaprirle risparmiando sui costi e imponendo nuovi e più alti livelli di produttività.
In Italia, in particolare, la conversione verso la motorizzazione elettrica sta aprendo nuovi scenari nel mercato automobilistico già in crisi per il calo della domanda generale di auto. A gennaio 2022 tale domanda è diminuita del 10,7% rispetto a un anno prima e del 35% rispetto agli inizi del 2019. In questo calo complessivo è particolarmente evidente la diminuzione della richiesta di automobili con motore diesel. Perciò quello della Bosch non è e non resterà un caso isolato. Sono quasi 500 le imprese italiane della componentistica (con circa 70.000 operai) operanti nelle motorizzazioni tradizionali (non solo diesel) che la svolta verso l’auto elettrica sta mettendo fuori mercato o spingendo a riconvertire la produzione. Ad esempio, uno fra i tanti, la Vitesco Technologies Italy, società leader mondiale nella produzione di elettro iniettori per motori a benzina della provincia di Pisa, ha annunciato 750 esuberi perché intende passare alla propulsione elettrica. Il passaggio dalla motorizzazione a scoppio a quella elettrica sta provocando un grande scompiglio, e ancora di più lo causerà prossimamente, in un settore a forte concentrazione operaia, con gravi ripercussioni sulle condizioni di lavoro e di vita degli operai. Chiamati, perciò, urgentemente a misurarsi con esso. Ma non per farsi coinvolgere sul tipo di produzione, sullo stato dei mercati, bensì per scoprire che dietro le scelte produttive c’è la potente determinazione del profitto industriale, di come e con quali costi si possono sfruttare gli operai o renderli superflui. Se una linea di difesa della condizione operaia nel processo di conversione verso l’elettrico si può determinare, deve fondarsi su questa presa di coscienza.
L. R.
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