Una corrispondente dal corteo di Parigi racconta della manifestazione e ci mette di fronte alla scelta: accettare il meno peggio e piegare la testa o ribellarsi con tutti i mezzi disponibili?
La rabbia delle strade esplode in tutta la Francia nella giornata internazionale dedicata ai lavoratori. Ci si chiede dunque se sia questo un inizio della fine di una Veme Republique (quinta repubblica) che a una parte della Francia comincia a stare stretta.
La Francia è arrabbiata e delusa, il popolo manifesta per un mancato rispetto di quel contratto sociale di cui proprio un francese, Rousseau, ha stabilito le basi nel 1700.
E mentre l’Italia, più precisamente Milano, capitale europea, vede sfilare le centomila persone del 25 aprile in risposta verso un governo di stampo neofascista, nel giorno dedicato ai lavoratori solo poche migliaia di persone si affollano a ritmo di musica tekno dietro ai camion. Forse più per contestare il decreto anti-rave che per far rimangiare al governo Meloni tutte le manovre peggiorative sul mondo del lavoro. Il clima che si respira in una nazione che ha visto l’ascesa di un partito di destra (estrema?) sembra al limite del ridicolo per le riforme e i decreti del quale sono protagonisti Meloni e i suoi ministri: se da un lato alla regressione in termini di diritti operata sul suolo italiano si oppongono pochi giovani al ritmo di musica, in Francia la musica non c’è.
In Francia il messaggio si legge forte e chiaro sui volti della gente: non c’è niente da festeggiare, perché ancora una volta la legittimità del valore democratico, sulla cui illusione si basa il modello di stato liberale instauratosi in occidente, è stata calpestata. Presa a calci come i lacrimogeni lanciati contro i cordoni di una polizia sempre più violenta, che si immola nella difesa di una banca simbolo del capitalismo e obiettivo principale del blocco incaricato delle azioni più violente. Una delle immagini simbolo della contestazione di quest’oggi, Primo Maggio, è racchiusa strumentalmente nel cocktail di bombe molotov lanciate contro la CRS (membri della polizia ausiliaria). Contraddittoria e violenta, la foto ruba subito la scena mediatica delle più importanti fonti di notizie francesi: nella condanna di questa azione, che viene usata peraltro per screditare la forza del movimento riducendolo alla violenza allo stato puro, quasi non avesse una ragione sociale, c’è da ricordare che tutta una serie di altri immagini vengono omesse. Il fatto che un giornalista di un media indipendente francese, “Brut” (letteralmente grezzo in francese), venga manganellato deliberatamente, dopo essere stato colpito da lacrimogeni sparati ad altezza uomo, non compare nelle testate principali. Così come l’uso di getti d’acqua simili agli idranti per disperdere il blocco, utilizzati contemporaneamente ai lacrimogeni e alle bombe di desancerclement (disaccerchiamento) in un cocktail micidiale, non ha sortito niente. Ora, l’atto di forza alimenta un altro atto di forza, ma la domanda che sorge spontanea, in una suggestione alquanto pasoliniana, riguarda anche il ruolo della polizia, toccata anch’essa dalla riforma e che continua inesorabilmente a difendere il suo re. Confermando il suo ruolo di strumento attivo di repressione dei movimenti popolari. Cosa si produrrebbe nel momento in cui Macron vedesse venir meno per la forza del movimento di protesta l’assetto d’ordine messo in piazza dalla sua polizia?
Certo è che una rivoluzione in questi termini avrebbe bisogno di forze operaie che al momento in Francia non sono ancora organizzate per quell’obbiettivo. Ma perché anche nell’attuale forma di rivolta nulla di tutto ciò avviene in Italia? Esattamente in questo punto risiede la grande differenza tra le due nazioni tra le quali mi divido: i francesi hanno una cultura della contestazione capace di andare oltre le piccole divisioni e in grado di riunire sotto l’unica bandiera della protesta partiti di opposizione e movimenti sindacali. In Italia tutto questo, senza neppure un partito di centro-sinistra, risulta oggi impensabile, nonostante le condizioni sociali e lavorative siano nettamente peggiori.
Per tornare alla cronaca dei fatti di piazza, mi è stato raccontato, da chi era presente al corteo del 25 aprile, che a Milano si marciava sotto lo slogan di “tout le monde deteste la police” (tutti odiano la polizia), un po’ cliché e fuori luogo in uno stato sempre più dichiaratamente di destra. Nella capitale francese si riuniscono gli antifascisti militanti, che seguono una ragazza italiana sulle spalle di un’amica mentre batte le mani al ritmo di un coro forte e scandito in lingua italiana che recita “siamo tutti antifascisti”. Sembra un paradosso che abbiano imparato da noi, loro che nonostante l’età più bassa pensionabile in Europa da oltre 4 mesi scioperano per il rispetto dei propri diritti. Loro che hanno una cultura della contestazione invidiabile nella più parte degli stati del mondo. Loro che nonostante la legge per la riforma della retraite (pensione) sia passata attraverso l’applicazione poco discutibile della costituzione, il famoso procedimento 49.3, erano in cinquecentomila il primo maggio a sfilare per le strade.
Violenti o no hanno avuto quella forza di rispondere che manca nella maggior parte degli stati occidentali. Se si volesse poi aprire una breve parentesi sulla violenza, per quanto questa sia solo pane per i denti di Macron che si nutre dell’immagine che i media danno delle piazze, vendendosi come garante di un ordine che non ha bisogno di essere ristabilito perchè è nocivo, chi può sentirsi in grado di giudicare una risposta legittima a una violenza istituzionale cinica e nascosta? Chi è senza peccato scagli la prima pietra: e dai giovani, vestiti di nero, alla testa di una contestazione violenta com’è giusto che sia, di pietre ne partono parecchie. Non vogliono – e non devono – essere loro a pagare gli errori di una classe politica e dirigente sempre più disinteressata ai reali problemi dei suoi cittadini.
Sommata a questa duplice violenza si aggiunge inoltre, schierata con gas lacrimogeni, bombe cosiddette di “desancerclement” (letteralmente in francese disaccerchiamento) , e per l’occasione idranti puntati altezza uomo, una polizia sempre più frustrata e capace solo di perseguire una risposta violenta verso un popolo che ha tutto dalla sua parte per produrre anche fra le loro fila qualche problema. Viene da chiedersi, a caldo, perchè non si uniscano alla protesta contro la riforma che tocca anche loro, ma come dei burattini eseguono e tentano di ristabilire un ordine che non ha nessun diritto di restare tale. Come si può pensare che non venga questa definita una rottura del patto sociale: è cessato di esistere il monopolio della violenza da parte dello Stato quando lo Stato ha smesso di occuparsi dei diritti dei cittadini.
La testa al re i francesi l’hanno già tagliata, i diritti non si ottengono da soli, bisogna lottare per averli e da sempre questo popolo è capace di insegnarci come farlo e guidarci per la retta via. Siamo stati fin troppo abituati ad accettare, a piegare la testa e a scegliere il meno peggio: la Francia ci mette davanti a un bivio oltre al quale è necessario che ogni cittadino prenda posizione, chiedendo indirettamente a ognuno di noi: “continuerai a farti scegliere, o finalmente sceglierai?”. Il presidente Macron è avvisato che sarà un nuovo Mai ‘68 (Maggio del 1968, conosciuto per le contestazioni operaie e studentesche), per coloro che hanno il riferimento dei fatti avvenuti in Francia quella calda primavera.
Le monde est à nous (il mondo è nostro) scriveva Said su un manifesto pubblicitario nel celebre film di Kassovitz “la haine” (l’odio). Non a caso in una banlieu francese, non a caso uno dei film che ha forgiato generazioni di proteste. Si tratta semplicemente di tradurlo in pratica e scendere in quelle vie che di rivolte ne hanno viste eccome.
“La Rue elle est à nous, le monde il est à nous” (la strada è nostra, il mondo è nostro), come “Tout niker devient vital – anti France” (distruggere tutto diviene vitale) sta scritto ormai nelle strade di Parigi.
M. P.
Comments Closed